Così ho cominciato a sognare che avrei dovuto fare qualcosa

Mio nonno mi raccontava spesso dell’imboscata in Croazia e del suo ginocchio saltato una volta incocciato il proiettile sparato da chi difendeva Tito. Mi sono addormentato tra le sue braccia innumerevoli volte, pensandolo un eroe ed io un bambino fortunato ad avere un nonno così, un nonno sopravvissuto alla guerra.

Poi sono cresciuto e diventato uomo. Ho studiato, lavorato e vissuto al mio meglio. Sono andato compulsivamente in Croazia, a cercare quello che diceva mio nonno e conservando la sua voce tra le più care.

Spesso nel dormiveglia mi confido ancora con lui. Tempo fantastico, animato da lupi di mare, orsi e tempeste, dove il sapore delle cose buone mangiate si mischiava con il caldo delle coperte giallo/arancione,  la penombra e, semplicemente, un senso di abbandono nella certezza della protezione.

Stanotte ci siamo detti che, in fin dei conti, anche per noi è stata una guerra, con buona pace delle mie ginocchia integre e della mia totale ignoranza su come si usi la baionetta.

Negli ultimi dieci anni, la crisi reale, e ciò che ciascuno di noi gli ha appiccicato addosso, ha tolto il fumo negli occhi all’illusione di essere combattenti fatti della stessa pasta. Non è stata solo una questioni di soldi o di occupazione. Di mancanza di prospettive e di opportunitá. Ciascuno in questi anni si è industriato come può nel far fronte ad un collasso del sociale, ad un infarto psichico dei significati, all’alterazione continua delle regole della relazione. Questa è stata la guerra dei quarantenni, quelli che hanno dovuto reinventarsi dopo un bluff. Trainare la carretta. Tenere in piedi un progetto di vita.  Far conciliare l’amore con dimensioni come la paura e l’aggressività. E’ esploso il male di vivere. Tutti stiamo male. Tutti siamo vincitori e perdenti, vittime e colpevoli, aggressori e aggrediti. Il trauma viaggia alla velocitá di un click.

 


Molti amici, come me, sono sopravvissuti. Nelle cene del day after, ci sentiamo come compagni di cordata per aver cresciuto una famiglia e dribblato gli ostacoli crudi del reale. Contratti a termine, misconoscimento del merito, licenziamenti improvvisi, sono stati i nostri principali nemici. Il terrore del crollo psichico è stato un fedele compagno di viaggio. Certo, i focolai di guerra non sono affatto finiti. La precarietà è ancora tanta, ma è come se ci fossimo abituati a vivere in uno stato di tensione, sviluppando anticorpi che ci hanno fatto recuperare il sonno ed anche riprovare la gioia di vivere.

Il mio radar si accende di fronte alla solidità morale e passionale di chi ha provato a tirar su una vita di questi tempi in Italia, senza alcuna garanzia di successo. Ammetto che dialogo soprattutto con questa gente. E’ come una sindrome. Ci riconosciamo al primo sguardo, come se ci dicessimo: anche tu sei uno di trincea. Abbiamo dovuto ricalibrare il senso del piacere, il concetto di prospettiva, le soluzioni all’angoscia, magari mentre concepivamo i nostri figli e sentivamo l’urgenza di dare al mondo la miglior immagine di noi.

Quando ci ritroviamo, ricordiamo gli amici scomparsi. Morti dentro, si intende. Perso il lavoro o ricevuta una delusione scottante o tramortiti dall’assenza di riconoscimento, abitano in una terra di confine con la vita. Irretiti in idee più che in ideali, privi di scaltrezza e di passioni, hanno un tetto, ma sono orfani di patria e senza causa. La loro parlata è lenta, e quando capita passeggiamo insieme stando in silenzio, per poi salutarci sempre senza parole.

I garantiti hanno invece avuto conforti per continuare il ‘come se’ nei bunker di proprietà, protetti dalle forme più varie di potere e possesso che hanno allentato la loro aderenza alle cose per come vanno là fuori. Distanti anni luce, come un’altra razza. Ne parliamo meno volentieri e forse un pò li invidiamo, anche se non ci piace dirlo. Nelle sparute occasioni in cui escono dalla campana di vetro, ci osservano con sguardo distratto, che la vista ed il tatto sono stati gentilmente concessi dall’altro. Ci sorridono con generosità frivola, che non ci scalda, ed è per questo che anche li evitiamo.

Come in ogni guerra, ci sono poi gli schiavi, che vorremmo liberare. Alcuni ci strizzano l’occhio e stanno diventando combattenti in segreto. Studiano le nostre mosse. Si esercitano di notte, quando il nemico dorme, pago dei loro servigi. Diventano lentamente consapevoli e assertivi e cominciano a pensarsi possibili in una vita migliore.

Molti altri hanno invece anestetizzato il dolore, e pur di avere un giaciglio e un tozzo di pane, accettano ogni compromesso. Ci fanno rabbia, perchè sono disertori. Hanno visto il nemico in faccia e deciso di non combatterlo, costruendo panegirici giustificazionisti sulla necessità di una sopravvivenza. A noi la loro condizione pare una scelta ed una cosa grama, e stiamo in attesa che il nostro parlargli sia pari al desiderio di ascoltarci.

In questa avventura, ci piace stare con i mercanti. Hanno reagito per come potevano, mantenendo viva la mente. Ci insegnano qualche trucco quando ci invitano nei loro incasinati bazar. Nel frequentarli, usciamo sempre con qualcosa di inutile in mano, ma siamo lo stesso felici e, soprattutto, siamo noi a ricercarli. Ci danno coraggio ed entusiasmo nei porti e nei mercati, là dove parte il flusso di una vita impazzita, che va a ritmi da capogiro.

Al nonno, chiedevo sempre, sbadigliando, che cosa facessero i generali. Lui sospirava, mi accarezzava, e rispondeva dolcemente che i generali comandano, fanno e disfanno.

Una volta lo fecero tornare a piedi. Mi ricordo di questo. Un lungo ritorno da solo tra i nemici nel bosco di notte. Ma mio nonno ce la faceva sempre, e mi addormentavo sereno, anche se i generali non avevano per niente capito cosa avesse significato per lui quel viaggio di notte.

Così ho cominciato a sognare che avrei dovuto fare qualcosa.