Tutti gli articoli di giacomo grifoni

Sul desiderio di un flusso

desiderioNon c’è che desiderio e socialitá, nient’altro”.

Deleuze e Guattari 

L’Anti-edipo. Capitalismo e schizofrenia.

Ho riconcentrato l’attenzione su un libro la cui lettura non può che essere sintomatica come è sintomatica la conseguente scritturaflusso che in me ha ispirato. La macchina desiderante produce il reale e da qui dovremmo ripartire in una sorta di recupero del messaggio dell’Anti-edipo nell’era post atomica della bomba chiamata “crisi”.

La clinica delle psicosi mi insegna quanto il pensiero “schizo” sia intriso della produzione del flusso in cui cerchiamo spesso di inscrivere una categoria – nosologica, psichiatrica o interpretativa – mentre la clinica delle nevrosi si imbatte in quel che l’eccesso di struttura produce nel soggetto, ovvero il suo schiacciamento sotto l’egida della repressione.

Sulle opportunità del flusso deleuziano, non da intendersi come invito all’uccisione di ogni fardello simbolico in nome di una pulsione cieca ma come liberazione del desiderio dalle istanze sociali che lo hanno ingabbiato, potrei aver molto da dire.


 Mi connetto al flusso. Incontro centinaia di persone ed ascolto ovunque un brusio di sottofondo. Le famiglie, i genitori, i fratelli, le sorelle, i gruppi classe, i gruppi di lavoro, le coppie, i single, gli italiani, gli stranieri, tutti sarebbero aperti al flusso finalizzato non più ad acciuffare l’oggetto miracolistico che colmi la mancanza; piuttosto, dichiarerebbero più o meno sommessamente la disponibilità di donare loro stessi al flusso in sé, esauritasi la speranza che qualsiasi forma di Struttura possa fornire senso alle prospettive immaginarie, una volta preso atto che la mancanza risiede nel concetto stesso di struttura.

Quel che chiamo incontri causali, non fortuiti ma neanche articolati nel “discorso del Padrone”, sono esempio del flusso appunto “macchinico”, volto a produrre nel reale la dimensione animale della vita, dove animale significa abitato dalla pulsione a vivere, senza attribuire al concetto di animalità alcuna valenza religiosa o zoologica.

Nel corso delle presentazioni di Non esiste una giustificazione, ho avuto spesso modo di sentire il flusso, osservando la comunità coinvolgersi in una produzione appunto “animale”, che si è tradotta in una riflessione appassionata sullo scheletro della violenza, sui tentacoli del potere e sul potere accecante dello sguardo dell’altro.

Ho scoperto che uomini e donne, professionisti e non, hanno ciascuno/a un padrone cui chiedere di render conto e mi piace pensare al flusso di idee emerso come amplificatore dell’urgenza di un’azione trasformativa all’insegna del desiderio di produzione di sé oltre le maglie dell’Altro.

Il desiderio ingenuo di incontrarsi per parlare, avviare nuove connessioni relazionali sull’impronta della sorpresa, dello stupore e dell’incanto, comunicare per uscire dal fantasma narcisistico della solitudine, avviare un’azione di cambiamento sociale oltre gli spartiti di concerti già suonati e gli steccati di campi istituzionali prestabiliti, questo ho inteso per flusso.

Movimenti di pura economia pulsionale, sospesi tra sogno e realtà, tra percezione del bisogno e formulazione di una domanda, veicolati dal solo impulso aggregativo tra pari umani.

Rileggendo l’Anti-edipo, ho allora pensato che l’opportunità, in tutta questa confusione, potrebbe (o sarebbe potuta) consistere nel co-produrre un flusso molecolare di azione e passione senza appartenenza alcuna alle categorie molari che scienza, politica e religione confezionano quotidianamente al banchetto esperienziale della vita per poterci chiamare uomini.


 Purtroppo, la paccottiglia dei saperi, la comparsa di nuovi sciamani, l’ipersensibilità con cui ciascuna funzione difende il proprio territorio – politico, professionale, amicale, amoroso, hobbystico – alimentano ovunque, all’interno del flusso, la speranza nelle “credenze”, concime straordinario per sostenere l’illusione che il proprio orticello culturale possa crescere lontano dalle nubi tossiche della radioattività globale.

Ecco che la macchina capitalistica incombe, come ci ricordano Deleuze e Guattari, sulla potenza eversiva del desiderio, deterritorializzandolo sotto forma di flussi decodificati appena il desiderio si presenta nella sua forza dirompente e primitiva.

Flusso credenza, flusso lavoro, flusso appartenenza, flusso noi si, flusso voi no. Flusso distanza, flusso vicinanza, flusso non più, flusso non ancora, flusso non basta. Flusso sono contro, flusso sei fuori, flusso parliamone, flusso ci devo riflettere.

Qui nasce la struttura sottoforma di credo, che ripiega la potenza macchinica del desiderio in una miriade di organi da potenziare, lubrificare, oliare, lucidare, far scorrazzare, revisionare e poi sostituire, magari pagando per la loro demolizione attraverso un contrito processo di lutto. Forse la violenza rappresenta la benzina invisibile con cui ciascuno di noi guida la propria macchinuccia, ben distribuita negli autogrill ad ogni punto di ristoro e di codificazione sociale dei flussi.


Quando viene offerta  un tanto al chilo nel rione della logica mercantile, la fluidità del “corpo senza organi” di deleuziana memoria

studiareamareformarsilavorareconoscere

usciresentiremusicainformarsiviaggiare

si moltipica, si affetta, si taglia, si svende in una pletora di strumenti cristallizzati attraverso i quali ciascuno potrà esercitare il  suo diritto di espressione, il sacrosanto ritorno ad uno stato di benessere, la difesa di un’opinione o la maturata  consapevolezza di avere un problema.

Installatisi nel socius, costumi barattabili come moduli accrescono fallicamente l’esperienza o colmano magicamente una mancanza ad essere. Ce ne è per tutti i gusti e di ogni tipo, in ogni campo del sapere e dell’ignoranza: siamo diventati  l’epoca delle pillole dei miracoli. Tu fai questo miracolo a me, che io faccio questo miracolo a te.


Da opportunità di flusso, le categorie di vita allora si inturgidiscono: sono ora organi del corpo spogliato dal desiderio, veri stendardi del Potere.

Esempi. Se mi formo, allora mi laureo. Se mi fermo, allora no. Se allora no, allora bo. Se mi laureo, allora viaggio premio. Se viaggio premio, allora mi diverto. Se mi diverto, allora sono felice. Se sono felice, allora lavoro meglio. Se lavoro meglio, allora guadagno. Se guadagno, allora mi sposo, oppure mi sposo lo stesso, che il lavoro tanto non si trova.

Luoghi di culto della privacy e della presunzione di emancipazione, vettori ordinanti di traiettorie di vita altrimenti allo sbando, sacre dimore delle “legittime aspirazioni di crescita personale”, queste matrici del “se allora” strutturano una superficie di trascrizione e al contempo di tradimento del desiderio attraverso un discorso tanto amichevole, quanto capace, tempo zero, di congelare il battito della pulsione per la durata di una vita intera.

Flusso liberamente ispirato dalla rilettura di: 

Deleuze G.  Guattari F., L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Tr. it. Einaudi, Torino 1975.

A Roma il 4 luglio al Convegno “Broken connections”

A Roma il 4 luglio al Convegno organizzato dall’Accademia di Terapia della Famiglia “Broken Connections. Come riparare il triangolo primario in terapia”.  Effettuerò il seguente intervento:

“Uomini fragili, risposte violente. La sfida possibile del cambiamento degli uomini che agiscono comportamenti violenti nelle relazioni familiari”.

Qui il link per scaricare la brochure.

 

Fenomenologia della saccenza cognitiva

La saccenza cognitiva, dissociata dagli aspetti affettivi, è una fenomenologia ricorrente di difesa che incontro spesso e dalla quale, a volte, io stesso non sono esente.

Il potenziamento cognitivo della mente garantisce un rigonfiamento fallico, sotto forma di turgida produzione di opinioni e ragionamenti che liofilizzano la portata emotiva del pensiero, percepita come pericolosa e antiestetica, in nome della neutralità scientifica.
 
Ciò riguarda il laureato, come lo studente in erba o l’uomo comune, purché in possesso di qualche forma di sapere da esibire:
 
-come si resetta un S3
-come si affronta un disturbo dell’apprendimento
-come si risolvono i problemi dell’economia globale
-come si conquista una ragazza
-come si cucinano i carciofi alla romana
-come si educa un figlio
-come si mette in campo la fiorentina stasera
-come si tratta un paziente borderline
 
Lo sguardo vacuo, la postura tirata, il linguaggio forbito – quale forse è il mio nel post stesso ed altrove – riducono la persona ad un mero abbecedario degli eventi e delle istruzioni.
 
Spesso ho l’impressione che le persone si parlino attraverso le loro agende od il quotidiano di turno appena letto. La paura di un reale contatto viene così tenuta a bada dalla fenomenologia della saccenza, che di volta in volta pare funzionale a:
 
raccattare il sapere piuttosto che conquistarlo faticando
-saltare le tappe evolutive
-addormentare la dimensione pulsionale dell’incontro con l’altro
-acquisire facile consenso
-nascondere il proprio idioma attraverso una pletora di nozioni impersonali
-congelare qualsiasi forma di partecipazione attiva in nome del diritto alla privacy
 
Quando provo noia o voglia di andarmene o di finire presto, sento di essere capitato nella terra della saccenza cognitiva. Divento piccolo, inibito e sterile, e non più in grado di fare il buffone, come ero solito da adolescente, per riscaldare il clima che mi raffreddava e mi rendeva inquieto.
 
Che dare prova che lo scambio emozionale non passi attraverso strane pratiche new age, ma in una matrice relazionale di incontri profondi fatti da persone e non da rotocalchi, pare non serva. Ancorato ad una storia degli eventi, a momenti di stasi, all’altalena oscillante degli umori, alla passione della riconquista, alla noia della pausa, all’insoddisfazione di non sentirsi capiti, alla gioia di una strada ritrovata, penso di poter dire che buona parte del mio impegno esistenziale sta nel fatto di cercare strategie alternative alla passività, alla fuga o alla sindrome del saltimbanco, quando incontro un saccente cognitivo.

Annusando il colore fresco dei campi

Io sono un poeta, nei gesti nei modi e negli atti. Non rispetto le rigide regole del senso o gli schemi compassati dei silenzi e delle repliche.

Io sono intermittente e appassionato. Sono il fiume carsico di me stesso. Sono onda e spiaggia, relitto e guardia costiera. Sono adolescente che si azzuffa col nemico e che amoreggia con se stesso all’ombra. Sono pescatore dalle mani vuote, vino che scorre a buon mercato nelle caraffe degli amici, cavolo a merenda e bistecca alla fiorentina.

Sono tifoso di calcio e leggo Lacan. Sono precario ed aspiro ad una stabilitá che intellettualmente rifiuto. Perchè amo sostare ai bordi del mondo per poi costruire una fantasia, che cresce quando la pancia è vuota ed esiste una mancanza ad essere.

Vibro con le persone e questo mi basta. Le strane assonanze mi portano a sognare di notte ciò che a breve distanza accadrà e teorizzo, senza scomodare Dio o gli Archetipi, che esiste una mente relazionale.

Non ho un’opinione su tutto e spesso mi sento ignorante. Mi vergogno delle mie produzioni, che comunque ho finalmente trovato il coraggio di esporre. Inoltre, sento di amare, se amare significa generare parti di me che prenderanno forme loro.

Per questo ho messo al mondo figli, ho scritto libri e lascio tracce nei boschi in cui corro con lola, annusando con lei il colore fresco dei campi, proprio come fanno i cani ed hanno dimenticato gli umani.

Atto etico

Arriva il momento in cui chiedere di render conto diventa un atto etico. In quel preciso istante, ogni sopruso ed ogni arroganza, così come ogni discriminazione ed ogni dimenticanza, non spaventeranno più. L’unico mezzo è mantenersi lucidi e vivi, trovare tane di sopravvivenza oltre il grande mare dell’ignoranza. A volte “la crisi” diventa una scusa per non partire accettando il rischio di trovarsi “la cura” senza che questa ci venga servita dai grandi sapienti. Leggere non basta. Deve trasformarsi in scrivere e nel coraggio di denunciare tutto ciò che è osceno perché rientri sotto i riflettori della scena ed evapori come neve al sole. È osceno paralizzarsi come giovane oggi. È osceno assopirsi dietro al proprio cantuccio. È osceno non vedo non sento non parlo. È osceno provare compassione fine a se stessa senza impegno. È osceno non sentire l’irrefrenabile desiderio di dar forma a un movimento, ad una nuova onda, a nuovi riti -di passaggio, di confronto, di scontro – per riscaldarsi e accendersi in un’epoca di erosione del senso e dei valori. È osceno, infine, sentirsi fuori dalla scena quando invece inconsapevoli si recita il ruolo di protagonisti. Ci vogliono protagonisti-senza-scena. Riconquistiamocela.