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Nel mio lavoro, la preparazione scientifica e la pratica clinica interagiscono costantemente con l’espressione artistica, l’accento poetico, la letteratura, il cinema, la musica. Ritengo che questi aspetti estetici, oltre a valorizzare la mia formazione, siano imprescindibili anche nel percorso di cura: ciascuno può infatti ri-trovare se stesso imparando a riconoscere quali sono gli strumenti creativi attraverso i quali può esprimere e trasformare la propria identità. Questa è dunque la sezione in cui condivido mie libere impressioni ed espressioni, alcune delle quali possono essere protette da password: basta contattarmi per riceverla.

Le esperienze del dolce

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Un passante che sfiori e sorridi. Risvegliarsi in mezzo alla neve e pensare che sei te quel che vede. Dopo aver detto ho sete, invece, è dolce mio figlio che beve.

Il piacere dei capelli quando li lavo. Regalare alla macchina il pensiero di farla pulita. La campana che suona i rintocchi, un orologio che da tempo non metti.  

Dialogare in modo normalmente arrabbiato con chi ti ha tamponato. Invidiare all’estate il fatto di comprare ai bambini un gelato. Ritrovare una vecchia bozza, di quello che hai poi pubblicato.

Scrivere una frase sui gatti e sui cani tutta d’un fiato. Scambiare la scrittura come appunto un respiro, e le sue pause, con un dimesso sospiro. 

Rivedere al rallentatore il gol preferito. Assaggiare la nutella con vergogna ed un un dito. Comprare salumi regionali in imprevisti mercatini rionali.

Riflettere sull’urto del terremoto e risentire il terrore dei piccoli, che ad addormentarsi ci vogliono attimi, ma quello giusto stanotte non c’è.

Fotografare chi hai di fronte per farle un primo piano dell’anima. Parlare al tramonto con i contadini di come si faceva la semina. Mischiare le carte come un mago, la volta che  ci riesce.

Mangiare le pesche, quelle dure, quelle fresche. Provare a dormire in un convento. Cambiar verso all’onda del mare soffiandoci sopra contento. 

Contare con le dita di nascosto, come quando da piccolo mi ero perso nel bosco. Poco tempo ci avrebbero messo a ritrovarmi e riabbracciarmi più spesso. 

Dolce è tutto quello che sa di vero e di buono, che provare non è stato vano. Dolce è come camminare sopra l’ansia di vivere, stringendo a se stessi la mano. 

Quando andavo allo stadio da piccolo

Quando andavo allo stadio da piccolo dormivo a casa dei nonni la sera prima, che abitavano a cento metri dallo stadio e mi facevano cose buone da mangiare.

Lì, dove abitavano i miei nonni ed ora la casa non c’è più, Firenze mi sembrava più aperta, i viali più larghi, il sole più caldo ed il freddo più freddo. Provo ancora questa sensazione a Campo di Marte.

Mi svegliavo ogni domenica con l’odore croccante del pollo arrosto che mio nonno guarniva con religioso silenzio e si univa all’odore scopiettante del caffè, che mi piaceva di più di quello di casa.

Poi andavo con lui ai “campini” e a quell’epoca si vedevano i giocatori, quasi si toccavano, non erano divi di plastica ma persone importanti ed umane; mai che avessi voluto diventare uno di loro: li vedevo come miti possibili e basta.

Facevo qualche palleggio con il nonno e poi si tornava a casa: non mi riusciva proprio palleggiare, meglio andarli a vedere i giocatori. Arrivavano i miei e mangiavamo il  pollo croccante.

Dopo pranzo era un piccolo rituale magico:  partivo con mio nonno e mio padre per immergermi in un catino fitto fitto, dove per vent’anni ho preso pioggia, grandine, neve, ho visto l’incidente  alla testa di Antognoni, il gol di Monelli al Napoli da centrocampo e ho imparato cosa significa far parte di una comunità.

Se lo sapevi usare, lo stadio era un maestro di vita: ti insegnava a non calpestare quello accanto per andare in bagno, a rispettare la fila, a sopportare la fame e la sete, a condividere una gioia ed un dolore e ad esprimere in modo accalorato e civile un’emozione.

Che si vincesse o perdesse, alle sei c’era novantesimo minuto. Si vedevano tutti i gol, tutti insieme, perchè le partite si giocavano tutte insieme. Li vedevo di nuovo con mio padre e mio nonno, io sul letto e loro in piedi sulla soglia della porta.

Con un pò di nostalgia, allora tornavo a casa con i miei genitori, dove avrei visto domenica sprint, ma non sarebbe stata la stessa cosa: domenica sprint alle otto di sera era un pò come già una pre-scuola, insomma significava che poi si ricominciava.

Comunque, se c’era stato un gol molto bello della Fiorentina, telefonavo a mio nonno per ricommentarlo anche alle dieci: quello era l’istante più importante, perchè lui era già a letto ma si rialzava per parlare con me di un fatto magico che avevamo vissuto poche ore prima insieme.

Parlare con me era dunque qualcosa per cui valeva la pena alzarsi dal letto.

Le ore passate in treno

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Le ore passate in treno non sono ore perse. Le ore passate in treno sono ore guadagnate. Costretti ad una parziale immobilità, ci facciamo trastullare da idee, immagini mentali e pensieri che hanno un’altra consistenza rispetto a quelli fatti con i piedi per terra.

Le ore passate in treno danno dinamismo al nostro corpo, che dopo una-due-tre ore si muove con passo più svelto e convinto, si ancora alla realtà con un piglio diverso, si sbriga e si affretta e non vede l’ora di fare, andare, tramare.

Le letture fatte in treno, e gli sguardi intercettati, ed i volti studiati, e le mosse di rispetto e di confronto, di scontro e di attesa, ci fanno recuperare la dimensione dell’umanità e della sorpresa.

Nel treno siamo tutti meno diversi ed i tic quotidiani, e le piccole manie, e le smanie di arrivare, ed i bisogni fisiologici impellenti ci uniscono in un abbraccio quasi fraterno.

Oggi ho dialogato con un prete, un adolescente arrabbiato ed una signora di Montevarchi, che era stufa dei ritardi sulla linea Foligno-Firenze, che lei doveva andare a lavorare.

Le ore passate in treno sono entusiasmanti e nella loro monotonia un pò simile, sono come lo spazio transizionale di Winnicott, o la reverie di Bion, o il preconscio Freudiano.

Le ore passate in treno mi ricordano i lunghi viaggi per la Calabria fatti da piccolo, la cuccetta che tanto non dormo, i panini comprati dal finestrino.

Roma di notte. E’ la capitale. Napoli alle tre: buio pesto. Il cambio a Lamezia Terme. L’alba e poi il mare. E gli infiniti paesucoli che mi separavano dal mio, appartenente ad un’altra onda, ad un altro spazio, ad un’altra era.

Stavo arrivando in Calabria, presto avrei fatto un bagno lucido e fresco, dove le pietre erano lisce e faceva subito fondo.

Capita di non avere niente da scrivere

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Capita di non avere niente da scrivere. L’ansia che prende è docile e fitta, come nebbia su un colle di sera, buon tempo comunque si spera.

Certi eventi sono incommentabili: non esiste simbolo che li possa racchiudere, solo il coraggio e la pazienza di diluirli con dell’acqua gassata, come il vino forte dei contadini.

La gente ti sorpassa in velocità.  La mente gira lenta e non registra altro che attese. Il freno a mano è tirato, l’istinto velato.

Questo è un momento meraviglioso, perché si trema come le foglie d’estate d’agosto, già nate o già morte, non conosco la climatologia.

Sai quando fai stancamente una brace. Giusto per il gusto dell’altro di mangiare croccante. O quando bevi una birra gelata, solo per il gusto che sarebbe stata.

Volumi di aria ingurgitati a perdere, campanelli in lontananza di mucche, le vorresti andare a vedere, ma sono lontano e saranno solo ricordo di un protopensiero.

L’esperienza ha i suoi ritmi e le sue nostalgie. La terapia giusta in questi casi è accoglierla.

Diventare beoti di se stessi rende immensamente felici.  Non si deve sempre rielaborare, semplicemente andare, guidati da un’onda che porta piano ma lontano, o velocemente vicino, che poi è lo stesso.

Cambiare l’Italia con un cucciolo di cinghiale

Da stamani cambiare l’Italia è diventato possibile. Cambiare l’ignoranza si può. Mio figlio, in un’intervista a La sette, di fronte alla domanda ‘Cosa chiederesti al Presidente del Consiglio’ ha risposto: un cucciolo di cinghiale.

Mio figlio lo vuole cucciolo: già forte ma ancora da allattare. Un piccolo maialotto selvatico come quelli visti numerosi in Corsica quest’estate, che ha insistito perchè prendessi.

D’altronde abbiamo adottato cani, gatti, piccioni, rondoni, criceti. Perchè no. Un animale è un animale.

Gabriele lo vorrebbe portare a spasso, in un mondo forse un pò strano, dove al guinzaglio giri con un mangiaghiande.  Dovrei allora spiegargli che i mangaghiande stanno bene in natura. E che certe regole vanno rispettate.

Lui risponde: ma tante cose sono strane in questo mondo. Tante regole non sono rispettate. E allora dovremmo parlare delle guerre, delle  ingiustizie e della violenza. Della disoccupazione, del menefreghismo e dell’isolamento sociale.

Insomma, parlare del desiderio di crescere un cucciolo di cinghiale in un appartamento apre la mente, ma purtroppo non credo che lo faremo. Resta però la consolazione di spiegare a Gabriele che non è possibile crescere in un appartamento un cinghiale.

E il fatto che di questo sono convinti un po’ tutti – genitori, animalisti, intervistatori, politici, etc.  – mi fa sentire un uomo che fa parte di una collettività e cittadino di un’Italia migliore.

Il mare sarebbe stato tutto per noi

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Ho preso un aperitivo con Davide, mio figlio, anni otto. Lui ha preso una cedrata ed io un’acqua tonica. Eravamo vicino  al mare e mi sono sentito orgoglioso di tirare fuori 2.50 euro.

L’abbiamo sorseggiato lentamente, come vecchi amici al bar. Lui mi ha spiegato perchè ama quel gusto dolce amaro del cedro, ed io perchè da un pò di tempo amo il gusto secco e frizzante dell’acqua tonica.

Quella conversazione mi faceva sentire completo ed appagato, e ci siamo concessi un pò di tempo per succhiare con la cannuccia il residuo di due gusti diversi.

Poi ci siamo abbracciati, ed io gli ho raccontato che da piccolo prendevo la spuma bionda. Mi ha guardato con aria saccente, facendomi sentire un pò vecchio, perchè la bionda non c’è più da tutte le parti.

Abbiamo poi parlato di fiorentina, del suo avvio di campionato stentato e dell’imminente inizio della scuola. Quel punto valeva la pena di approfondirlo e Davide mi ha detto di essere contento di rivedere i suoi amici.

Era bello per me starci, in quel momento di incontro tra piccoli uomini. Gli ho chiesto se aveva voglia di altro e lui mi ha risposto sono a posto.

Allora mano nella mano abbiamo ripreso a camminare, perchè la cena nel frattempo era pronta.

Abbiamo guardato un pò ironici dei pescatori senza pesci in saccoccia, dicendoci, in silenzio, che se avessimo deciso di metterci a pescare insieme, il mare quella sera sarebbe stato tutto per noi.

I sintomi dei chilometri

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Ci sono cose che non hanno significato, se no non sarebbero cose. I chilometri, ad esempio, hanno un puro spessore cosale per quanto non siano un oggetto.

Si spalmano sul costo della benzina che ci vuole, su quanto tempo ci hai messo, su quanto male fanno i crampi che generano, su quanta batteria dell’ipod hai consumato. Quante persone hai portato, quanto qualcosa. I chilometri si nutrono del tuo quanto. Sono veri capitalisti in incognito.

Certe cose sanno essere democratiche, anche. Per esempio, i chilometri. Prete o brigante, marito od amante, professionista o lassista. I chilometri non ci chiedono la carta di identitá. Per loro siamo tutti uomini e donne senza qualitá, come diceva Musil, il che non è poi così male.

Ci sono cose che non hanno memoria. I chilometri, ad esempio, che non si ricorderanno mai. Tu li temi o li ami. Li eviti o li aspetti. Li ricordi e ci ricami sopra storie. Buoni o cattivi. Facili o difficili. Per lavoro o lungo il mare o lungo la montagna. Per loro, non sei un qualcuno. Non sei un oggi o un allora.  Casomai, un quanto all’ora. 12, 52, 76, 98, 125. Occhio alla lancetta, che individuare il pericolo sta solo a te.

Ci sono cose che non hanno desiderio. I chilometri, ad esempio. Autonomi. Narcisisti patologici. Senza reazioni emotive. Hanno il cuore di pietra e le vene laminate d’asfalto. Vampiri della nostra energia. Non ti vogliono ma ti accolgono, come locande aperte e un pò sciatte che ho incontrato in certe periferie, senza portiere a chiedere niente, con il solo pass per le carte di credito, un cartello con sopra scritto quanto costa dormire, un cancellino che si apre e dice: thank you.

Ci sono cose a cui noi siamo indifferenti. Per esempio, i chilometri. Bianchi o neri o gialli. Al nord o al sud del mondo. I chilometri non sono mappa ma territorio. Se ne fregano delle discese e delle risalite. Dei boschi e delle riviere. Dei confini e dei lignaggi. Dei linguaggi e delle appartenenze. Dei linciaggi e delle sentenze. Del trucco e delle apparenze.  I chilometri sono i veri compagni metafisici del viaggio e non fanno differenze: le code sono per tutti.

Ci sono cose che mi piacerebbe se potessero parlare. I chilometri, ad esempio. Che ci vedono sorridere o arrossire. Sbirciare il tramonto o dove sei. Fare di corsa per arrivarci, alle sei. Prendere multe. Urlare cantare sbraitare. Piangere amare e odiare. Mangiarsi le unghie. Strofinarsi il collo. Massaggiarsi la barba. Guardarsi e dirsi ci siamo.

Come cechi vojeur, i chilometri ci osservano con i nostri occhi. Ammasso che pulsa emozioni. Archetipi dei dinosauri, di nostro zio e dei suoi antenati. Dei convogli e delle carrozze. Di esili e conquiste.

Calcolo minuzioso dell’ossessivo. Vincolo del fobico. Porto di mare per chi cerca pericoli. Ancora per chi fugge da qualcuno o qualcosa.

Ma anche il mare quando lo vedi. E quell’improvvisa ondata di fresco, che siamo più in alto. La neve che prima non c’era: ah già, che da noi la neve non casca: siamo in montagna.

La pioggerellina che bagna e dici finalmente il cristallo lo lavo. Un lago che ti chiedi ci saranno li i pesci. Un autista che ti affianca e lo senti giá amico. Un altro, non sai perchè lo chiami invece nemico.

Quanti ne abbiamo fatti secondo il nostro  contatore interno? Quanti ne ha fatti l’intera umanitá? Giuro. Darei non so cosa per saperlo, che ad ogni giro e ad ogni corsa, esiste un numero esatto.

I chilometri non hanno religione o principio morale. Sono puro materiale immateriale. Cani, gatti, odore, sudore, dolore. Pneumatici sgonfi, va be controllerò. Una spia che si accende, un pensiero che ti tormenta: e se la macchina d’improvviso esplode?

Il monito della riserva. Un piccolo bruciore ogni volta che paghi. I soldi per il carburante sono fatti di catrame. La tappa all’autogrill: quel caffè dal sapore tremendo, ma che lì è il più buono del mondo. Che poi, ormai, bevi solo quelli. La caffettiera che da piccolo borbottava. Acqua frizzante. Una pellicola che scorre, brevi strofe da scrivere.

Il segnale lampeggiante. Rallentare c’è un hazard. Quando andavi impettito a scuola guida. La prima macchina che non c’è più. Il clang sotto la coppa che ti lascia perplesso. Un umore dimesso.

Din don, a cento metri c’è un autovelox. Questa incredibile cosa che è il navigatore: sia benedetto il navigatore. Fare a gara con le nuvole. Giocare a nascondino con il sole. Dire dai, che al mare c’è il sole. E la tua giornata prende improvvisamente colore.

Tutti titoli, tutti aneddoti, tutti enigmi.

Figli dei chilometri sono sintomi buffi, che vorresti guarire, o forse no. Un pò di impaccio e dolori articolari vari. Le caviglie che scricchiolano. Un cerchio alla testa costante. Soglia dell’attenzione sempre up. Il girovita da tenere sotto controllo.

Che c’è un sorpasso, o una curva da fare. Una sterzata brusca che salva la vita. E Poi.  La sindrome dei lavori per strada. Una sorta di ansia anticipatoria strisciante. Guidi tranquillo e ti dici. Ora incontro i lavori, ora ci sono i lavori, stai a vedere che becco i lavori.

Zacchete: eccoti i lavori. No. I lavori no.

Stare più eretti, o stare un pò curvi. Smarcarsi improvvisamente, sentirsi veloce, usare il freno, a volte a mano. Fare a gara con il treno, ma tanto lui va come un fuso. Individuare la piazzola. Parlare dialetti diversi, mischiare il linguaggio nelle culture che incontri: farsi cullare dalla nenia di un detto o di quella calata.


Viaggiare crea una dipendenza strana, un’acre sensazione di libertà. Stare immerso nelle mappe, alla ricerca di un territorio. Tanta fatica, ma poi pensi: sgranchita la schiena, tra i chilometri, nonostante tutto, mi sento un nomade felice.

E vai.

P.s.

Ma no. I lavori per strada, per piacere no!! 🙂

Il lungo respiro di un cane che poi si addormenta

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Un cane è un orologio che separa il bene dal male, la natura dalla cultura, il senso dalle cose. Un cane che poi si addormenta è una poesia.

Ogni notte, Lola mi aspetta sulla coperta. Il suo rintocco biologico non ammette sgarri; e mi segue perplessa, se per caso qualcosa va storto e dopo essersi riempita la pancia, trotterella da una stanza all’altra, oppure sale in macchina o assiste ai bagordi di una cena tra amici, con lo sguardo piccato che dice: quanto mi costa averti come padrone.

Arriva prima o poi, comunque, la consapevolezza reciproca che è arrivato il momento. Ecco che Lola scende diligentemente dal letto, che occupa in mia assenza. Un cane sul letto di un umano combina due istinti: la supervisione e il possesso. La difesa del branco e l’oscuro bisogno farlo.

Un pò contrariata, scende, guardandomi in tralice, che non vuol dire in cagnesco. Si arrotola e si spinge. Soddisfatto lo schema “è ora di dormire”, sgrufola e si arresta. Fa qualche girotondo impazzito. Mi punta con gli occhi socchiusi, quasi a sincerarsi che ancora ci sono. C’è qualcosa che non le torna, come se addormentarsi le fosse desiderato ed ostile.

Non posso darle torto. Addormentarsi è un rituale, a volte una missione. A volte riesce bene, altre volte riesce male. Ci sarebbe da scrivere un piccolo racconto su ogni notte. Meglio. Ci sarebbe da scrivere un piccolo racconto su come si scivola dentro ad ogni notte.

Sicuro lo si fa da soli, anche se in presenza di qualcuno: questo Lola lo sa. Io la chiamo, che vorrei abbracciarla, ma non è il momento, magari domani: ognuno si lecchi le proprie ferite e pensi a toilettare se stesso.

Ha un nido caldo, al pari del mio. E uno sul pavimento, quasi a ricordarsi che il suo destino deve pur essere più scomodo di quello del padrone. Calcola e misura, occupando i due luoghi con ritmo regolare, che lo potresti contare.

Cuccia terra terra cuccia cuccia terra terra cuccia.

Facciamo tam tam. Un posto freddo e lastricato, l’altro regressivo ed avvolgente. Proprio come i pensieri di notte.  Abitiamo paessaggi diversi anche in così poco spazio.

Io spengo la luce ma non i pensieri, che scorrono come watt, o come hertz, o come qualcosa che ha a che fare con l’energia  della luce che ho spento. Lola si sdraia. Si accomoda, si aggiusta sul fianco. Lo senti, questo tonfo felpato e pesante: come  una coperta battuta di pomeriggio in campagna, o un cestino di mirtilli che si appoggia sul prato, o un pacco di figurine che da bambino ti piomba dal cielo.

Ma non è ancora tutto, che c’è una cadenza irregolare dei suoi respiri che fa quasi ansia. Sono veloci, sanno di rincorsa di un cacciatore in mezzo al bosco. Di una preda che sta per essere stanata. Del terrore di essere catturata. Cerco di stare al loro passo.

Entro nella natura. Sfrecciano archetipi: cane padrone tribù battute di caccia. Preda predatore gabbia mancanza di cibo. Tagliola  bastone grotta abbandono paura carne sangue. Stantuffi sonori nel vuoto della notte, come accette che sagomano i miei pensieri.

Lola dormi, che è arrivato il momento.

Poi arriva il respiro finale, accompagnato dall’impasto inconscio delle fauci di un cane, che solo chi li ama riconosce e si aspetta.

E’ un lungo, profondo respiro, come la notte e la pace che genera. Un treno che viaggia di notte verso un paese bello e sperduto. Pausa dopo il lavoro, prima della stagione estiva. Una cena saporita e leggera. Sapere che si scriverà un romanzo di sera.

Sogni tesi ma belli. Ombrelli che si aprono e   passeggi sotto la pioggia. Essere felici della presenza di qualcuno nell’aria.

Anch’io mi addormento, che i cacciatori sono spariti, ed è possibile trovare ombra per i miei pensieri.

E questa volta se ne va per davvero

Nella mia passeggiata di oggi, che sarà durata si e no due ore, ho incontrato S. 54 anni, viene dal sud, due figli piccoli e fa il muratore.

L’ho incontrato in una mattina cupa e piena di pioggia. Aveva la libera, moglie e figli all’acquario con amici, andava a pescare. Io mi ero semplicemente abbandonato ad una camminata nervosa.

S. mi comincia a raccontare del suo mare, e del clima di terrore in cui vive con la fabbrica agli sgoccioli che potrebbe licenziarlo. Le mie gambe erano dure e poco pronte a stare al passo di un altro, ma sono cominciate ad andare.

Quando siamo passati davanti a una chiesetta bianca, io gli ho raccontato del mio libro e del mio precariato. E di quello che faccio.

In fin dei conti ascolti, mi ha detto S., e questo è tutto. Quando nella vita non ci sentiamo ascoltati cerchiamo altro, trasformiamo il nostro bisogno di ascolto in qualcosa di animale. L’ascolto è un diritto come mangiare e lavorare.

Era coraggioso, aveva un pensiero pulito, ma soprattutto lo sentivo sveglio, vigile, era una persona. Gli incontri si fanno sempre più rari, tra le persone. Abbindolati da frasi, paure, abitudini. Muro contro muro. Spalla contro spalla. Sguardo contro sguardo.

Io ed S. invece eravamo li. Questo l’ho sentito quando ci siamo seduti a un bar, a cogliere l’unico raggio di sole di questa estate bastarda. Ci sta tradendo anche lei, ridendo, ci siamo detti.

Io poi ho preso un caffè e lui un amaro, che ha pagato. Siamo passati davanti alla locandina di una scalcinata edicola, che arrugginita balbettava notizie sull’assoluzione di Berlusconi.

Avevamo proprio in quel momento smesso di sorridere, che S. mi parla dell’impepata di cozze, di come la fanno al suo paese, di quella specie di ragù di pesce che si infila dentro al guscio e di come godi aspirando quel nettare.

Lo guardavo estasiato pensando di replicare decantando la nostra bistecca. Ma S. mi anticipa e mi da il suo cellulare, vuole che vada a mangiare le cozze a casa sua quest’estate.

Io sono in parte del Sud, e conosco quella fiammata di calore che senti nella pelle della gente del sud.

Quasi per difendermi, allora mi incarto, racconto che sto per partire per la Corsica e che non prometto niente. Passiamo per un moletto, dove stanno dei pescatori tristi e qualche gabbiano perplesso alla ricerca di un luglio qualsiasi.

Guardando l’acqua torbida mulinellare, rimaniamo in silenzio, vicini all’acquario. S. allora si fa prendere dalla fretta e non so bene cosa succede, scappa veloce con un forte abbraccio.

Rimango di nuovo anticipato…lo avrei voluto salutare meglio. Giusto dirgli grazie…allora ti faccio sapere…anche se non ti prometto niente.

Riecco non ti prometto niente. Per come va ora la mia vita, domani potrebbe essere tutt’altro. Ciondolando, ricomincio a camminare, e mi sento in colpa per aver poco prima preso le distanze quando S. voleva sapere in quale fine settimana di agosto sarei andato giù.

Mi ricompatto subito, già pronto a rubricare un’esperienza così liquida in qualche box della mente. Nel mio lavoro so bene come si fa, significa stare con tutto te stesso per poi decantare.

Già pensavo al ritmo della corsetta da avviare, quando sento alle mie spalle qualcuno che corre ed è S. che mi da due biglietti per l’acquario, avanzati a sua moglie e ai suoi amici.

Aveva il fiatone, ma ce l’aveva fatta a raggiungermi. Vacci con i tuoi figli, mi dice, io ci ero già stato con loro, per quello oggi non c’ero! Una si, ma due volte no eh!

E questa volta se ne va per davvero.

Così ho cominciato a sognare che avrei dovuto fare qualcosa

Mio nonno mi raccontava spesso dell’imboscata in Croazia e del suo ginocchio saltato una volta incocciato il proiettile sparato da chi difendeva Tito. Mi sono addormentato tra le sue braccia innumerevoli volte, pensandolo un eroe ed io un bambino fortunato ad avere un nonno così, un nonno sopravvissuto alla guerra.

Poi sono cresciuto e diventato uomo. Ho studiato, lavorato e vissuto al mio meglio. Sono andato compulsivamente in Croazia, a cercare quello che diceva mio nonno e conservando la sua voce tra le più care.

Spesso nel dormiveglia mi confido ancora con lui. Tempo fantastico, animato da lupi di mare, orsi e tempeste, dove il sapore delle cose buone mangiate si mischiava con il caldo delle coperte giallo/arancione,  la penombra e, semplicemente, un senso di abbandono nella certezza della protezione.

Stanotte ci siamo detti che, in fin dei conti, anche per noi è stata una guerra, con buona pace delle mie ginocchia integre e della mia totale ignoranza su come si usi la baionetta.

Negli ultimi dieci anni, la crisi reale, e ciò che ciascuno di noi gli ha appiccicato addosso, ha tolto il fumo negli occhi all’illusione di essere combattenti fatti della stessa pasta. Non è stata solo una questioni di soldi o di occupazione. Di mancanza di prospettive e di opportunitá. Ciascuno in questi anni si è industriato come può nel far fronte ad un collasso del sociale, ad un infarto psichico dei significati, all’alterazione continua delle regole della relazione. Questa è stata la guerra dei quarantenni, quelli che hanno dovuto reinventarsi dopo un bluff. Trainare la carretta. Tenere in piedi un progetto di vita.  Far conciliare l’amore con dimensioni come la paura e l’aggressività. E’ esploso il male di vivere. Tutti stiamo male. Tutti siamo vincitori e perdenti, vittime e colpevoli, aggressori e aggrediti. Il trauma viaggia alla velocitá di un click.

 


Molti amici, come me, sono sopravvissuti. Nelle cene del day after, ci sentiamo come compagni di cordata per aver cresciuto una famiglia e dribblato gli ostacoli crudi del reale. Contratti a termine, misconoscimento del merito, licenziamenti improvvisi, sono stati i nostri principali nemici. Il terrore del crollo psichico è stato un fedele compagno di viaggio. Certo, i focolai di guerra non sono affatto finiti. La precarietà è ancora tanta, ma è come se ci fossimo abituati a vivere in uno stato di tensione, sviluppando anticorpi che ci hanno fatto recuperare il sonno ed anche riprovare la gioia di vivere.

Il mio radar si accende di fronte alla solidità morale e passionale di chi ha provato a tirar su una vita di questi tempi in Italia, senza alcuna garanzia di successo. Ammetto che dialogo soprattutto con questa gente. E’ come una sindrome. Ci riconosciamo al primo sguardo, come se ci dicessimo: anche tu sei uno di trincea. Abbiamo dovuto ricalibrare il senso del piacere, il concetto di prospettiva, le soluzioni all’angoscia, magari mentre concepivamo i nostri figli e sentivamo l’urgenza di dare al mondo la miglior immagine di noi.

Quando ci ritroviamo, ricordiamo gli amici scomparsi. Morti dentro, si intende. Perso il lavoro o ricevuta una delusione scottante o tramortiti dall’assenza di riconoscimento, abitano in una terra di confine con la vita. Irretiti in idee più che in ideali, privi di scaltrezza e di passioni, hanno un tetto, ma sono orfani di patria e senza causa. La loro parlata è lenta, e quando capita passeggiamo insieme stando in silenzio, per poi salutarci sempre senza parole.

I garantiti hanno invece avuto conforti per continuare il ‘come se’ nei bunker di proprietà, protetti dalle forme più varie di potere e possesso che hanno allentato la loro aderenza alle cose per come vanno là fuori. Distanti anni luce, come un’altra razza. Ne parliamo meno volentieri e forse un pò li invidiamo, anche se non ci piace dirlo. Nelle sparute occasioni in cui escono dalla campana di vetro, ci osservano con sguardo distratto, che la vista ed il tatto sono stati gentilmente concessi dall’altro. Ci sorridono con generosità frivola, che non ci scalda, ed è per questo che anche li evitiamo.

Come in ogni guerra, ci sono poi gli schiavi, che vorremmo liberare. Alcuni ci strizzano l’occhio e stanno diventando combattenti in segreto. Studiano le nostre mosse. Si esercitano di notte, quando il nemico dorme, pago dei loro servigi. Diventano lentamente consapevoli e assertivi e cominciano a pensarsi possibili in una vita migliore.

Molti altri hanno invece anestetizzato il dolore, e pur di avere un giaciglio e un tozzo di pane, accettano ogni compromesso. Ci fanno rabbia, perchè sono disertori. Hanno visto il nemico in faccia e deciso di non combatterlo, costruendo panegirici giustificazionisti sulla necessità di una sopravvivenza. A noi la loro condizione pare una scelta ed una cosa grama, e stiamo in attesa che il nostro parlargli sia pari al desiderio di ascoltarci.

In questa avventura, ci piace stare con i mercanti. Hanno reagito per come potevano, mantenendo viva la mente. Ci insegnano qualche trucco quando ci invitano nei loro incasinati bazar. Nel frequentarli, usciamo sempre con qualcosa di inutile in mano, ma siamo lo stesso felici e, soprattutto, siamo noi a ricercarli. Ci danno coraggio ed entusiasmo nei porti e nei mercati, là dove parte il flusso di una vita impazzita, che va a ritmi da capogiro.

Al nonno, chiedevo sempre, sbadigliando, che cosa facessero i generali. Lui sospirava, mi accarezzava, e rispondeva dolcemente che i generali comandano, fanno e disfanno.

Una volta lo fecero tornare a piedi. Mi ricordo di questo. Un lungo ritorno da solo tra i nemici nel bosco di notte. Ma mio nonno ce la faceva sempre, e mi addormentavo sereno, anche se i generali non avevano per niente capito cosa avesse significato per lui quel viaggio di notte.

Così ho cominciato a sognare che avrei dovuto fare qualcosa.