Quando andavo allo stadio da piccolo

Quando andavo allo stadio da piccolo dormivo a casa dei nonni la sera prima, che abitavano a cento metri dallo stadio e mi facevano cose buone da mangiare.

Lì, dove abitavano i miei nonni ed ora la casa non c’è più, Firenze mi sembrava più aperta, i viali più larghi, il sole più caldo ed il freddo più freddo. Provo ancora questa sensazione a Campo di Marte.

Mi svegliavo ogni domenica con l’odore croccante del pollo arrosto che mio nonno guarniva con religioso silenzio e si univa all’odore scopiettante del caffè, che mi piaceva di più di quello di casa.

Poi andavo con lui ai “campini” e a quell’epoca si vedevano i giocatori, quasi si toccavano, non erano divi di plastica ma persone importanti ed umane; mai che avessi voluto diventare uno di loro: li vedevo come miti possibili e basta.

Facevo qualche palleggio con il nonno e poi si tornava a casa: non mi riusciva proprio palleggiare, meglio andarli a vedere i giocatori. Arrivavano i miei e mangiavamo il  pollo croccante.

Dopo pranzo era un piccolo rituale magico:  partivo con mio nonno e mio padre per immergermi in un catino fitto fitto, dove per vent’anni ho preso pioggia, grandine, neve, ho visto l’incidente  alla testa di Antognoni, il gol di Monelli al Napoli da centrocampo e ho imparato cosa significa far parte di una comunità.

Se lo sapevi usare, lo stadio era un maestro di vita: ti insegnava a non calpestare quello accanto per andare in bagno, a rispettare la fila, a sopportare la fame e la sete, a condividere una gioia ed un dolore e ad esprimere in modo accalorato e civile un’emozione.

Che si vincesse o perdesse, alle sei c’era novantesimo minuto. Si vedevano tutti i gol, tutti insieme, perchè le partite si giocavano tutte insieme. Li vedevo di nuovo con mio padre e mio nonno, io sul letto e loro in piedi sulla soglia della porta.

Con un pò di nostalgia, allora tornavo a casa con i miei genitori, dove avrei visto domenica sprint, ma non sarebbe stata la stessa cosa: domenica sprint alle otto di sera era un pò come già una pre-scuola, insomma significava che poi si ricominciava.

Comunque, se c’era stato un gol molto bello della Fiorentina, telefonavo a mio nonno per ricommentarlo anche alle dieci: quello era l’istante più importante, perchè lui era già a letto ma si rialzava per parlare con me di un fatto magico che avevamo vissuto poche ore prima insieme.

Parlare con me era dunque qualcosa per cui valeva la pena alzarsi dal letto.