Le esperienze del dolce

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Un passante che sfiori e sorridi. Risvegliarsi in mezzo alla neve e pensare che sei te quel che vede. Dopo aver detto ho sete, invece, è dolce mio figlio che beve.

Il piacere dei capelli quando li lavo. Regalare alla macchina il pensiero di farla pulita. La campana che suona i rintocchi, un orologio che da tempo non metti.  

Dialogare in modo normalmente arrabbiato con chi ti ha tamponato. Invidiare all’estate il fatto di comprare ai bambini un gelato. Ritrovare una vecchia bozza, di quello che hai poi pubblicato.

Scrivere una frase sui gatti e sui cani tutta d’un fiato. Scambiare la scrittura come appunto un respiro, e le sue pause, con un dimesso sospiro. 

Rivedere al rallentatore il gol preferito. Assaggiare la nutella con vergogna ed un un dito. Comprare salumi regionali in imprevisti mercatini rionali.

Riflettere sull’urto del terremoto e risentire il terrore dei piccoli, che ad addormentarsi ci vogliono attimi, ma quello giusto stanotte non c’è.

Fotografare chi hai di fronte per farle un primo piano dell’anima. Parlare al tramonto con i contadini di come si faceva la semina. Mischiare le carte come un mago, la volta che  ci riesce.

Mangiare le pesche, quelle dure, quelle fresche. Provare a dormire in un convento. Cambiar verso all’onda del mare soffiandoci sopra contento. 

Contare con le dita di nascosto, come quando da piccolo mi ero perso nel bosco. Poco tempo ci avrebbero messo a ritrovarmi e riabbracciarmi più spesso. 

Dolce è tutto quello che sa di vero e di buono, che provare non è stato vano. Dolce è come camminare sopra l’ansia di vivere, stringendo a se stessi la mano. 

Quando andavo allo stadio da piccolo

Quando andavo allo stadio da piccolo dormivo a casa dei nonni la sera prima, che abitavano a cento metri dallo stadio e mi facevano cose buone da mangiare.

Lì, dove abitavano i miei nonni ed ora la casa non c’è più, Firenze mi sembrava più aperta, i viali più larghi, il sole più caldo ed il freddo più freddo. Provo ancora questa sensazione a Campo di Marte.

Mi svegliavo ogni domenica con l’odore croccante del pollo arrosto che mio nonno guarniva con religioso silenzio e si univa all’odore scopiettante del caffè, che mi piaceva di più di quello di casa.

Poi andavo con lui ai “campini” e a quell’epoca si vedevano i giocatori, quasi si toccavano, non erano divi di plastica ma persone importanti ed umane; mai che avessi voluto diventare uno di loro: li vedevo come miti possibili e basta.

Facevo qualche palleggio con il nonno e poi si tornava a casa: non mi riusciva proprio palleggiare, meglio andarli a vedere i giocatori. Arrivavano i miei e mangiavamo il  pollo croccante.

Dopo pranzo era un piccolo rituale magico:  partivo con mio nonno e mio padre per immergermi in un catino fitto fitto, dove per vent’anni ho preso pioggia, grandine, neve, ho visto l’incidente  alla testa di Antognoni, il gol di Monelli al Napoli da centrocampo e ho imparato cosa significa far parte di una comunità.

Se lo sapevi usare, lo stadio era un maestro di vita: ti insegnava a non calpestare quello accanto per andare in bagno, a rispettare la fila, a sopportare la fame e la sete, a condividere una gioia ed un dolore e ad esprimere in modo accalorato e civile un’emozione.

Che si vincesse o perdesse, alle sei c’era novantesimo minuto. Si vedevano tutti i gol, tutti insieme, perchè le partite si giocavano tutte insieme. Li vedevo di nuovo con mio padre e mio nonno, io sul letto e loro in piedi sulla soglia della porta.

Con un pò di nostalgia, allora tornavo a casa con i miei genitori, dove avrei visto domenica sprint, ma non sarebbe stata la stessa cosa: domenica sprint alle otto di sera era un pò come già una pre-scuola, insomma significava che poi si ricominciava.

Comunque, se c’era stato un gol molto bello della Fiorentina, telefonavo a mio nonno per ricommentarlo anche alle dieci: quello era l’istante più importante, perchè lui era già a letto ma si rialzava per parlare con me di un fatto magico che avevamo vissuto poche ore prima insieme.

Parlare con me era dunque qualcosa per cui valeva la pena alzarsi dal letto.

Supervisio-amiamoci

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RIflettevo su quello che sta succedendo in molte piazze italiane: virtuali, reali, professionali, amicali.

I gruppi sono frammentati, e invasi da legami – K, direbbe Bion: scivolano cotidie nella prepsicosi, nella posizione schizoparanoidea, nell’ansia persecutoria del carnefice, nell’attesa inconsistente dei messia, nell’idealizzazione massiccia di feticci: ogni dato concreto che diventi sembiante di una pulsione inconscia indigerita e non pensata.

Il pensiero è minato da una miriade di oggetti bizzarri, agiti imperanti, lotte col coltello tra i denti. Mi sembra che siamo tutti un pò pirati senza tesori da cercare o mappe da scovare per andare a cercare tesori.

I legami sono lassi e ci si rivoltano contro: un giorno mi sei amico, un istante dopo sparli, poi mi ritorni amico ed io sono confuso, perchè confido nella presenza di concetti come memoria o coscienza, mentre tu mi racconti il contrario con lo svolazzio frivolo della tua esperienza.

Il tempo è diventato un “solopresente“, struttura olofrastica e quindi psicotica: non vengo mosso da un valore o da un’ideale in cui infuturarmi, non vengo mosso dalla memoria di un errore passato, non vengo mosso dall’ansia di un giudizio imminente ma dal polpettone intrapsichico che è fatto da: la riduzione dal danno, la salvaguardia personale, il solletichio immaginario del mio io, l’abbuffata di pulsioni, l’annullamento del margine di rischio, il bisogno di corporativismo “come se”,  l’angoscia di un “noi” maniacale contro un “voi” bastardo, e cosi via.

Potremmo supervisionarci a vicenda con amore, attenzione, rispetto, integrazione nelle differenze e passione. Creare una rete pensante ed amante dove fondare un progetto virtuoso: questo potrebbe partire dal basso, dal confronto sulle nostre reciproche innocenze, carenze, mancanze e paure.

L’amore creerebbe allora legami stabili e non perturbabili dalle intemperie emotive. L’amore creerebbe nuovi contenitori di senso sulle ceneri delle nostre reciproche crisi: valoriali, economiche, familiari, professionali ed esistenziali.

Dovremmo far capire che è dalle relazioni di amore – dove per amore intendo il concetto più ampio di condivisione di passioni non distruttive –  che nasce l’economia di buoni gruppi, che si rispetterebbero in una versione armonica del conflitto, dove sarebbe bello parlare di quello che secondo te io credo mentre io parlo di quello in cui secondo me tu credi.

Non è l’economia che crea amore: piuttosto, penso che sia l’amore a creare economia.

Dovremmo denunciare la mancanza di amore che pervade la nostra vita: eppure non lo facciamo; o meglio, facciamo capolino – come un bambino in punta di piedi –  ma è come se ci vergognassimo nel pretendere di fondare una società sull’amore.

Penso che una delle cose di cui ci vergogniamo in assoluto sia il nostro bisogno di amore nella versione pubblica di noi stessi. Ci rintaniamo nelle nostre case, ad autogenerare un affetto condiviso con i nostri cari, ma che manca di connessioni con gli affetti degli altri. A volte questo accade, ma sono come gocce estemporanee di rugiada.

Il nostro io pubblico diventa così il mondo del cervello sinistro: dell’efficienza, della strategia, della performance svincolata dall’eros. Scisso dal primo, il nostro io privato abbonda invece di eros senza sfondo, senza scheletro, avvitandosi su se stesso.

Il cervello tagliato a fette abbonda nei tempi di magra: a volte perdo la speranza che sia possibile supervisio-amarci.