Quando non vedevo a gettito continuo, mi emozionavo di più: sentivo il valore delle cose, della loro giustezza o del loro sbaglio. Nell’epoca del non visibile, il pericolo era l’eccesso dell’indicibile e del soliloquio interiore.
Oggi che invece vediamo tutto e di tutto, il pericolo è l’anestesia, che deriva dall’eccesso di oscenità a cui assistiamo. Nell’epoca dei click, l’istante dello sguardo batte il tempo per comprendere e il momento di concludere. Se li mangia proprio. È una rivoluzione dei tre tempi logici di cui parlava Lacan.
Le verità sono diventate istantanee e immediatamente solubili con le cose. Non serve loro il tempo per comprenderle per essere comprese. Né la decisione di concluderle per essere concluse.
Sono flash immanenti, noumeni, piccoli dei che impongono regimi autoritari nel regno di ciascuna retina. Fiammelle onnipresenti nel cimitero delle cose pensate.
I dati sensoriali bombardano il nostro esserci: l’esperienza che facciamo delle cose si riduce spesso ad un equilibrismo sospeso degli stimoli – dire, fare, baciare, lettera e testamento – sul nervo ottico, senza che ci sia accesso alla materia grigia.
Il nervo ottico scrive dunque il diario del mondo attraverso pure scariche elettriche senza sfondo. Questa è la nostra stanchezza. Il rischio dei microtraumi ripetuti è l’anestesia affettiva: non ci scandalizziamo e non facciamo più della nostra indignazione un valore di vita.
Nella parata dei flash traumatici, diciamo: ancora una volta, fino a quando, un giorno, qualcuno o qualcosa non sia in grado di risvegliare in noi la consapevolezza che è arrivato il tempo per comprendere il momento di concludere.