Tutti gli articoli di giacomo grifoni

L’istante eterno dello sguardo

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Quando non vedevo a gettito continuo, mi emozionavo di più: sentivo il valore delle cose, della loro giustezza o del loro sbaglio. Nell’epoca del non visibile, il pericolo era l’eccesso dell’indicibile e del soliloquio interiore.

Oggi che invece vediamo tutto e di tutto, il pericolo è l’anestesia, che deriva dall’eccesso di oscenità a cui assistiamo. Nell’epoca dei click, l’istante dello sguardo batte il tempo per comprendere e il momento di concludere. Se li mangia proprio.  È una rivoluzione dei tre tempi logici di cui parlava Lacan.

Le verità sono diventate istantanee e immediatamente solubili con le cose. Non serve loro il tempo per comprenderle per essere comprese. Né la decisione di concluderle per essere concluse.

Sono flash immanenti, noumeni, piccoli dei che impongono regimi autoritari nel regno di ciascuna retina. Fiammelle onnipresenti nel cimitero delle cose pensate.

I dati sensoriali bombardano il nostro esserci: l’esperienza che facciamo delle cose si riduce spesso ad un equilibrismo sospeso degli stimoli – dire, fare, baciare, lettera e testamento – sul nervo ottico, senza che ci sia accesso alla materia grigia.

Il nervo ottico scrive dunque il diario del mondo attraverso pure scariche elettriche senza sfondo. Questa è la nostra stanchezza. Il rischio dei microtraumi ripetuti è l’anestesia affettiva: non ci scandalizziamo e non facciamo più della nostra indignazione un valore di vita.

Nella parata dei flash traumatici, diciamo: ancora una volta, fino a quando, un giorno, qualcuno o qualcosa non sia in grado di risvegliare in noi la consapevolezza che è arrivato il tempo per comprendere il momento di concludere.

Le brochure delle tre nuove edizioni del corso di formazione Cam (Firenze, Cremona, Sardegna)

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Partono a breve le tre nuove edizioni 2014/2015 del corso formazione CAM, rinnovato e strutturato secondo tre livelli e che sarà effettuato a Firenze, a Cremona ed in Sardegna (Olbia o Sassari).

Di seguito il link per scaricare le brochure.

Il nuovo corso, arricchito e modificato, prevede tre step formativi:  

corso di formazione propedeutico   

aperto a tutte le professionalità. Rappresenta un’occasione formativa per tutte quelle persone che a vario titolo si trovano ad interfacciarsi con la violenza nelle relazioni affettive.

corso di formazione di primo livello

corso di formazione di secondo livello

I corsi di Primo e Secondo livello sono riservati alle professioni di aiuto o a volontari che abbiano maturato un’esperienza consolidata nel settore.

Cambiando si impara: idee per una teoria ed una pratica della non violenza

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«La verità e la non-violenza sono antiche come le colline»

 M.K. Gandhi

 Teoria e pratica della non-violenza  Einaudi, 2006


Nel mio intervento di ieri alla giornata di studi “Vincere la violenza alla donna” organizzato dall’Ordine degli Avvocati di Firenze ho cercato di coinvolgere tutte e tutti in un messaggio culturale.

L’assunto di base da cui parte ogni forma di azione e contrasto della violenza, a favore di chi la agisce e subisce, è aumentare i gradi di libertá del soggetto attivo o passivo rispetto alla possibilità di scegliere.

Se psicologizziamo la violenza, utilizziamo categorie di potere. Se psichiatrizziamo, anche. Se nosologizziamo, peggio che mai. Il concetto di scelta apre le porte a quello che più ci interessa, e che è il cambiamento culturale, che dovrebbe iniziare nelle piazze, nelle palestre, nei bar di provincia, nei campetti da calcio.

Si può scegliere che cultura essere, nell’appartenenza e nella differenziazione. E se proprio si fosse “ammalati” di violenza, si può sempre scegliere di curarsi o meno.

Trasatti spiega in modo esemplare in  Educazione e non violenza, come occorra decostruire gli stereotipi che stanno intorno alla non violenza, oltre che quelli che ruotano intorno alla parola violenza.

Non violenza non è passività, ma è assertività e coraggio di far valere le proprie idee in modo rispettoso.

Non violenza non è spiritualismo ma impegno strategico, sinergico ed efficace.

Non violenza non è “noi-voi” ma “noi e voi” oltre le dicotomie che semplificano e scindono il mondo.

Non violenza significa dire no ad un problema che è strutturale e sussume la violenza di genere.

A mio modo di vedere la violenza è, nella maggioranza dei casi, la deriva di un modo di essere culturale. E lo dice l’ Oms,  che all’interno del modello olistico ed ecologico della complessità, sottolinea le determinanti culturali della violenza.

Nell’epoca delle “passioni tristi”, come dicono Benasayag e Schmit, dovremmo nutrire il futuro soprattutto di una nuova speranza culturale che faccia della non violenza pratica, teoria e strategia.

Idee:

1) revisione degli stereotipi dell’esser maschio e l’esser femmina a partire da sè;

2) impegno nel cambiamento sociale in ogni contesto possibile: intimo, amicale, informale, professionale;

3) adesione ad un’ottica non giustificazionista della violenza ma aperta alla speranza non mistica;

4) adesione ad un’ottica pluricausale della complessitá della violenza che non ne snaturi la trama culturale che la compenetra e sottende;

5) scrivere e generare idee incontrando gente comune;

6) trovare sintesi, comunanze e differenze tra modelli teorici diversi, riconoscendo quanto le categorie di potere abbiano avviluppato le nostre forme di sapere;

16 dicembre – A Lucca: Campagna del fiocco bianco. Incontro con le scuole e a seguire presentazione di Non esiste una Giustificazione

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Parlare di non violenza ai ragazzi significa parlare di attività concrete, assertività, capacità di esprimere i propri bisogni e motivare le proprie scelte.

Non violenti significa essere attivi, propositivi, strategici ma rispettosi e scegliere di essere tutto questo.

 

 

Le persone semplici

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Le persone semplici non giudicano. Pensano quando è necessario. Lavorano e si assumono la responsabilità. Si arrangiano come possono costruendo un caleidoscopio di possibilità.

Le persone semplici hanno un’innata tendenza al fare. Parlano solo quando è utile. Si muovono leggere nell’aria e si spaventano di fronte alle intemperie. Si accorgono del tempo che passa e quando si offendono te lo dicono.

Le persone semplici sono belle perché hanno il coraggio di sgranare gli occhi e commentare “che bello”. Quando devono esprimere un’opinione, dicono che è difficile per loro stare nella neutralità, perché sono abitate da conflitti e passioni.

Le persone semplici parlano come mangiano e sono capaci con battute, per l’appunto semplici, di dire una poesia, spiegare meccanismi complessi come l’ossigenazione del vino e come mai la Fiorentina sta giocando un campionato storto.

Le persone semplici sanno cosa è l’olio di gomito e usano in abbondanza olio extravergine durante la cottura di un soffritto. Non corrono in automobile ma si gasano quando la loro macchina va bene in ripresa. Non diventano boriose quando nascono i figli e fanno diventare proprio, in  versione moderata, il concetto di rivalità.

Le persone semplici hanno sudato. Sono normalmente avare e ogni tanto spendono per il loro piacere, che ritengono un sacrosanto diritto. Possono fare a meno di tutto ma non del rispetto reciproco e del dirsi le cose in faccia quando tengono all’altro.

Le persone semplici rinunciano quando un compito è impossibile. Si sforzano invece di riuscire, quando la forbice esistenziale tra come sono e come potrebbero diventare è ampia al punto giusto da generare in loro curiosità e entusiasmo. Hanno un gusto speciale per i valori artigianali della vita, il che non esclude l’evenienza di essere appassionati di tecnologia.

Le persone semplici non sono autoreferenziali. Se qualcuno cucina meglio, che so, la spigola alla brace o la parmigiana, glielo riconoscono. Hanno sofferto senza però aver trasformato la sofferenza in una retorica. Sanno amare e ricercarti quando hanno bisogno di aiuto. Scompaiono poi per settimane o per mesi, senza vincolarti in un ricatto affettivo.

Le persone semplici sopravvivono senza di noi ma ci vogliono bene lo stesso. Le senti vicine anche senza vederle, e questo genera la rassicurante convinzione, quando ti svegli di soprassalto di notte, di non essere rimasto da solo ad arrampicarti sulla vita.

Le ore passate in treno

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Le ore passate in treno non sono ore perse. Le ore passate in treno sono ore guadagnate. Costretti ad una parziale immobilità, ci facciamo trastullare da idee, immagini mentali e pensieri che hanno un’altra consistenza rispetto a quelli fatti con i piedi per terra.

Le ore passate in treno danno dinamismo al nostro corpo, che dopo una-due-tre ore si muove con passo più svelto e convinto, si ancora alla realtà con un piglio diverso, si sbriga e si affretta e non vede l’ora di fare, andare, tramare.

Le letture fatte in treno, e gli sguardi intercettati, ed i volti studiati, e le mosse di rispetto e di confronto, di scontro e di attesa, ci fanno recuperare la dimensione dell’umanità e della sorpresa.

Nel treno siamo tutti meno diversi ed i tic quotidiani, e le piccole manie, e le smanie di arrivare, ed i bisogni fisiologici impellenti ci uniscono in un abbraccio quasi fraterno.

Oggi ho dialogato con un prete, un adolescente arrabbiato ed una signora di Montevarchi, che era stufa dei ritardi sulla linea Foligno-Firenze, che lei doveva andare a lavorare.

Le ore passate in treno sono entusiasmanti e nella loro monotonia un pò simile, sono come lo spazio transizionale di Winnicott, o la reverie di Bion, o il preconscio Freudiano.

Le ore passate in treno mi ricordano i lunghi viaggi per la Calabria fatti da piccolo, la cuccetta che tanto non dormo, i panini comprati dal finestrino.

Roma di notte. E’ la capitale. Napoli alle tre: buio pesto. Il cambio a Lamezia Terme. L’alba e poi il mare. E gli infiniti paesucoli che mi separavano dal mio, appartenente ad un’altra onda, ad un altro spazio, ad un’altra era.

Stavo arrivando in Calabria, presto avrei fatto un bagno lucido e fresco, dove le pietre erano lisce e faceva subito fondo.

La natura è cultura

Distruzione del Leviatano - incisione del 1865 di Gustave Dorè fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/File:Destruction_of_Leviathan.png
Distruzione del Leviatano – incisione del 1865 di Gustave Dorè
fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/

Io vorrei riavere a che fare con le persone, sentire il calore di un entusiasmo sociale, costruirlo insieme accanto alle nostre case, oltre che i binari per le tramvie.

Percepisco la depressione nell’aria, la terra sta diventando depressa. La depressione,  in molte aree, è un dato di fatto culturale: uno stile di vita acquisito, un’impotenza appresa di massa, un rodaggio dei motori individuali al minimo dei giri, il crollo di una speranza ed il rinchiudersi collettivo delle certezze in piccoli rituali quotidiani di cui ciascuno è fattore ed attore.

Sempre più diffidenti, abitati da un sottile vissuto paranoideo, scivoliamo via, appena ci intercettiamo, vivendo tra paletti reali e virtuali. Abbiamo paura ma ci ostiniamo a non parlarne, simulando una vita normale, ma con la coda dell’occhio vediamo che nessuno di noi è soddisfatto.

Ho la fortuna di incontrare centinaia di persone nel mio lavoro ma non posso fare a meno di constatare che per i più, il lavoro, quando c’è, è spesso estraniante. Se va bene, siamo nell’epoca del fordismo della mancanza di senso. Se va male, capitiamo in universi abitati da procedure disumanizzanti dove si autoalimentano odio, potere e rivalità.

Ad incorniciare questi strani giorni, i codicilli. Le password. I link. Le app. Le overview. Le slides. I blog. Compreso questo. Poi altre parole dell’ultima generazione dei cellulari, ci saranno, non so. Io ho ancora un s3.

In un bel prato, sotto il sole cocente o la pioggia battente, le differenze si assottigliano e la simulazione del falso benessere anche. Credo che sia per questo motivo che la gente si “risente” durante qualche evento infausto: perchè fa, opera, suda, sgomita, impreca,  lavora.

Quando la depressione è culturale, c’è poco da fare clinica e molto da fare cultura, impegnarsi in schizzi e progetti, gettare il cuore oltre l’ostacolo e ritrovarsi, oltre le ermeneutiche personali. Le ermeneutiche del lamento, del privilegio, dell’attacco e della difesa.

La cultura si fa da piccole cose: come si parla, ci si veste, ci si muove, si guarda una partita, si mangia, si impegna il tempo libero.  Come ci si stupisce dei 30 gradi a fine ottobre o si accolgono amici a cena la prima volta. Come si applica la non violenza sapendosi osservare in ogni gesto umano prima che professionale o tecnico. O riconoscendo uno scivolamento personale verso un agito che ti prende la mano e che sarebbe potuto andare anche oltre.

Mai come oggi, almeno per me, la cultura è la vita e sta nel flusso delle cose semplici. E’ fuori dai libri, verso i quali non sento più l’attrazione che mi riempiva un tempo.  Sono ammaliato da quello che mi insegna lo sguardo pieno di un cane, o lo scodinzolio ostinato di un pesce, o il freddo persistente che provo quando l’autunno si riaffaccia a riannodare il ritmo delle stagioni perse.

A dispetto del detto, siamo infatti invasi dalle mezze stagioni.

Accademia di Psicoterapia della famiglia di Roma: workshop con Giacomo Grifoni e Alessandra Pauncz

LAVORARE CON LA VIOLENZA: VERSO NUOVI MODELLI DI INTERVENTO

E’ emozionante, come terapeuta familiare, entrare all’Accademia di Roma come docente. Questo workshop, dove ci occuperemo di definire caratteristiche e specificità del lavoro con vittime ed autori di comportamenti violenti, ha per me numerosi significati simbolici ed affettivi. Ne sono particolarmente orgoglioso ed entusiasta.

Di seguito la brochure dell’evento.

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