Tutti gli articoli di giacomo grifoni

L’ordine delle cose

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In autunno voglio il fuoco che scoppia, in inverno la neve che cade, in estate il sole che scotta, in primavera un fiore che sboccia.

Nell’attesa voglio l’ansia di vivere, nella vicinanza qualcosa che manca, nella distanza la lontananza, nel resto quello che avanza.

Nell’antipasto il sapore più forte, nel primo ordinarlo due volte, il secondo incartocciarlo perfetto, il caffè berlo sempre corretto.

Diplomati per lavorare, laureati per fare ricerca, alambicchi per gli scienziati, le traiettorie di vita chiamarle fati.

La passeggiata per digerire, la corsa per alleggerire, le flessioni per sedare la colpa, che tanto le fai solo una volta.

I misteri per quel fatto di ieri, la certezza per una visuale più netta, la penombra perchè mi asseconda, tra il lusco ed il brusco del mare in un’onda.

Il giorno per pensare a cambiare, la notte per cambiare il pensare, perchè sono i fatti a fare i miei mondi, nelle strofe dei miei bisogni.

Sarebbe bello infatti cantare che i sogni trasformano il mondo, ma a casa mia, se non mi confondo, il tondo fa rima con tondo.

Panico e violenza

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Continuiamo a simulare un’esistenza normale. La simulazione è diventata il nostro meccanismo di difesa preferito, una specie di velo magico che applichiamo alle cose che non vogliamo vedere.

Crediamo che il lupo cattivo sceso dalle montagne a divorare la pecora sia stato uno sbaglio o un’aberrazione della natura, e che non succederà mai più, perchè i lupi cattivi appartengono sempre all’altro e se ne stiano tra di loro a divorarsi tutte le pecore che vogliono nel bosco.

Dovremmo invece cominciare a chiederci noi adulti quello che i ragazzi non sanno chiedere se non con il panico e la violenza. Il panico e la violenza dilagano e rivelano la mancanza di codici di senso in società adulte sonnacchiose e rassegnate, ancora rattrappite sulle toppe del benessere del dopo guerra e di una vita come se. Incapaci di una visione proattiva, di incanalare la pulsione e di fare cultura, di aprire al terzo e al diverso. I ragazzi tutto questo lo sentono e lo agiscono.

Certi modi di vivere sono estranianti perchè non osano contenere il naturale bisogno di slittare dell’adolescente. Le nostre città sono come un dedalo di binari precostituiti dal narcisismo delle comunità adulte e dal pudicissimo senso post-borghese della morale in cui pretendiamo si muovano i ragazzi con ordine, rispetto e riconoscenza; valori di vita che, per legge di natura, magari dovremmo insegnare noi a loro e non pretendere per nostro comfort esistenziale.

Il panico denuncia il senso di soffocamento, l’amore morboso e irrisolto, la patologia di altri che, evacuata in me, vive egoaliena, rendendo difficile fare i compiti in classe e seguire le lezioni, confrontarsi tra amici e farsi una vita. Il panico diventa i tagli sulla pelle, la fuga da casa e l’indicibile.

Il panico parla di tradizioni culturali asfittiche, di tabù irrisolti nella penombra di esistenze familiari moderate dalla vergogna e dall’ossequio del non si deve, non si può, non esiste, non si fa, facciamo come se la vita fosse bella a prescindere, senza sessualità e senza aggressività.

La violenza sopravanza invece la dimensione della protesta e diventa attacco ai legami di pensiero, ai legami tra le cose, alla richiesta di ogni oggetto, alla voglia di amore. Diventa parodia macabra della passione, come decibel sparati addosso, fiumi di inchiostro su pagine che ogni giorno si rilavano e restano bianche, nella beata indifferenza del mondo adulto, capace solo di rimproverare in modo cerbero o di predicare in modo eucaristico.

La violenza è tutto quello che i miei genitori, ed i miei nonni, ed i miei avi, ed i loro amici, ed i loro parenti, e gli amici dei loro parenti, ed i loro conoscenti, e tutti quelli al loro fianco, non hanno potuto o voluto dire, fare, baciare, lettera o testamento. La violenza è chiedere un conto nel modo sbagliato, è pretendere un riconoscimento mai stato aggredendo, è un atto pericoloso che da protesta legittima si trasforma in liquido corrosivo nel paniere già bacato della nostra società.

Eppure basta poco coi ragazzi, solo instradare, solo degnare di attenzione, solo manifestare comprensione, solo dare l’esempio che si può cambiare direzione dello sguardo e dell’inclinazione della testa, quando ci parlano, se si è ancora in tempo.

Sveglia.

In ogni solitudine, c’è un verso di poesia e direzione

LUNANOTTE

 Sottofondo – “in un mi minore”

di Stefano Cencetti

Il titolo è il verso nella solitudine che ho scritto ieri, e che magicamente ha trovato nota (in “un mi minore”), la nota di un caro amico, Stefano Cencetti, che è musicista e direttore d’orchestra, e che fa musica seria, mica come la mia, che la notte se la porta via.

Il tocco del “mi minore” viene da Federica Totaro (direttamente dal suo angolo della Fede). E il pezzo di Stefano lo senti in sottofondo.

Al primo anno di psicologia, poco più che ventenni, con Stefano si parlava di come sarebbe stato bello battere i piedi per pomeriggi interi sui marciapiedi. Da quell’immagine, ci siamo incontrati quest’estate in una frettolosa cena nei dintorni di San Casciano, a qualche festa dell’unità, a raccontarci delle reciproche traiettorie di vita, semplicemente con il piacere addosso e la voglia di scriverci e suonarci sopra. Che a me, se togli le note e la penna, e magari la chitarra, non rimane poi molto.

Allora Stefano oggi mi ha fatto un regalo, che mi piace vederlo come un regalo di Natale ritardato. In quei due minuti di tempo che si è dato, il suo talento e la sua sensibilità hanno gettato giù questa melodia che è struggente e rappresenta proprio la mia musica, che lui sa e riconosce, perchè la sente dentro.

Improvvise fette di sole nel buio che movimenta. Una casa brumosa in Irlanda alla fine di una corsa, proprio quando il calore del corpo ha ammansito il freddo pungente. Poi mi sa di spiaggia in Spagna, si e no a tre quarti dell’estate, si e no a tre quarti del pezzo. Poi ritorno in Norvegia, a mezzo fiordo di distanza dall’età che avanza.

Grazie Stefano, sicuramente verso di poesia e direzione.

Si fa un disco.

Pescare niente è bellissimo

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Ero a Calafuria, vicino Livorno, ed era un mare mosso ma non molto, giusto quello che ti serve per dire oggi abboccano, e posso andare vicino alle onde senza bagnarmi, vedrai che abboccano.

C’erano dei bambini che scoppiavano in ritardo petardi, il chè non ha disturbato tanto me, o i mei bambini, ma la mia canina Lola si, che si è infrattata dentro ad una roccia e ho dovuto consolare.

Poi ho provato con la bombarda, comprata anni fa a Pontedera, che è un bussolotto di plastica che scodinzola a mezzo mare, dice che richiami le occhiate, ma anche stavolta non ha richiamato niente se non l’eco del mare, e qualche schiocco sonoro sullo scoglio, che sembrava dire io ti voglio.


Pescare niente è bellissimo. Ti dà la misura di quanto è bello pescare.


Poi c’era accartocciato sotto me un volantino del movimento 5 stelle, dove si chiedeva la tua adesione per il referendum, che è uscire dall’euro, al che mi è preso un pò di tristezza, ed un compulsivo controllo del portafoglio nel giubbotto, che se cadesse quello in mare, con gli euro dentro, ed i documenti, sarebbero guai.

L’ho cestinato nella bottiglia di plastica perchè era illeggibile, insomma inutile, e sarebbe finito in mare, che non è bello inquinare. 

Poi, si e no, due o tre volte, ho provato con il galleggiante, i miei figli giocavano con l’esca, si divertono a gettare l’esca al mare, mentre la speranza di pescare qualcosa se ne andava a naufragare.

Dai che lo prendo, un branzino, o come lo chiamano qui, ragno, un pesce grosso, di quelli veri, mica la magra pietanza che ti offre lo scoglio, che è il pesce di scoglio. Inutile, ‘sta voce di sottofondo rimarrà sempre, al di là del principio di realtà ma senza essere principio di piacere.

Galleggianti a goccia e a pallina, piombati ed affusolati, pesanti e leggeri, con la lenza di oggi e, soprattutto, con quella usata ieri (che anche la lenza al giorno d’oggi costa).


Ma i pesci rimangono tutti per l’altro, questa è la sindrome del pescatore, il pesce che non prendi non è un pesce in sè, ma un pesce prendibile dall’altro pescatore.


In fondo, laggiù a la Capraia, c’erano tre navi grosse, immaginavo dentro ci fosse qualcosa di importante, ma forse erano solo tre grosse navi,

tre grosse navi tra tante.

Poi è arrivato uno squarcio di sereno, un raggio di sole potente e bello pieno, e mi sono improvvisamente detto è estate, mi getto in mare, che tanto è estate,

ma eran solo fate.

Poi l’ondone freddo come al solito è arrivato, mi ha lasciato li mezzo inzuppato, con i miei figli a ridere e a dire “è sempre il solito”, e ho cominciato a fare il buffone, e la canina Lola, dall’istinto della protezione,

cedeva a quello della derisione.

Poi ho intravisto la Corsica, le mie falcate calde su chilometri di spiaggia rovente, i polpi ci zampillavano dentro, un improvviso senso di pace della mente,

ed i tendini tirare.


Erano le quattro e poi, poi, poi… poi arriva la Befana. Via bambini, chiamate la mamma, per oggi s’è finito di pescare, si va al ristorante, si ordina un fritto, che oggi si mangia comunque.

Le esperienze del dolce

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Un passante che sfiori e sorridi. Risvegliarsi in mezzo alla neve e pensare che sei te quel che vede. Dopo aver detto ho sete, invece, è dolce mio figlio che beve.

Il piacere dei capelli quando li lavo. Regalare alla macchina il pensiero di farla pulita. La campana che suona i rintocchi, un orologio che da tempo non metti.  

Dialogare in modo normalmente arrabbiato con chi ti ha tamponato. Invidiare all’estate il fatto di comprare ai bambini un gelato. Ritrovare una vecchia bozza, di quello che hai poi pubblicato.

Scrivere una frase sui gatti e sui cani tutta d’un fiato. Scambiare la scrittura come appunto un respiro, e le sue pause, con un dimesso sospiro. 

Rivedere al rallentatore il gol preferito. Assaggiare la nutella con vergogna ed un un dito. Comprare salumi regionali in imprevisti mercatini rionali.

Riflettere sull’urto del terremoto e risentire il terrore dei piccoli, che ad addormentarsi ci vogliono attimi, ma quello giusto stanotte non c’è.

Fotografare chi hai di fronte per farle un primo piano dell’anima. Parlare al tramonto con i contadini di come si faceva la semina. Mischiare le carte come un mago, la volta che  ci riesce.

Mangiare le pesche, quelle dure, quelle fresche. Provare a dormire in un convento. Cambiar verso all’onda del mare soffiandoci sopra contento. 

Contare con le dita di nascosto, come quando da piccolo mi ero perso nel bosco. Poco tempo ci avrebbero messo a ritrovarmi e riabbracciarmi più spesso. 

Dolce è tutto quello che sa di vero e di buono, che provare non è stato vano. Dolce è come camminare sopra l’ansia di vivere, stringendo a se stessi la mano. 

Quando andavo allo stadio da piccolo

Quando andavo allo stadio da piccolo dormivo a casa dei nonni la sera prima, che abitavano a cento metri dallo stadio e mi facevano cose buone da mangiare.

Lì, dove abitavano i miei nonni ed ora la casa non c’è più, Firenze mi sembrava più aperta, i viali più larghi, il sole più caldo ed il freddo più freddo. Provo ancora questa sensazione a Campo di Marte.

Mi svegliavo ogni domenica con l’odore croccante del pollo arrosto che mio nonno guarniva con religioso silenzio e si univa all’odore scopiettante del caffè, che mi piaceva di più di quello di casa.

Poi andavo con lui ai “campini” e a quell’epoca si vedevano i giocatori, quasi si toccavano, non erano divi di plastica ma persone importanti ed umane; mai che avessi voluto diventare uno di loro: li vedevo come miti possibili e basta.

Facevo qualche palleggio con il nonno e poi si tornava a casa: non mi riusciva proprio palleggiare, meglio andarli a vedere i giocatori. Arrivavano i miei e mangiavamo il  pollo croccante.

Dopo pranzo era un piccolo rituale magico:  partivo con mio nonno e mio padre per immergermi in un catino fitto fitto, dove per vent’anni ho preso pioggia, grandine, neve, ho visto l’incidente  alla testa di Antognoni, il gol di Monelli al Napoli da centrocampo e ho imparato cosa significa far parte di una comunità.

Se lo sapevi usare, lo stadio era un maestro di vita: ti insegnava a non calpestare quello accanto per andare in bagno, a rispettare la fila, a sopportare la fame e la sete, a condividere una gioia ed un dolore e ad esprimere in modo accalorato e civile un’emozione.

Che si vincesse o perdesse, alle sei c’era novantesimo minuto. Si vedevano tutti i gol, tutti insieme, perchè le partite si giocavano tutte insieme. Li vedevo di nuovo con mio padre e mio nonno, io sul letto e loro in piedi sulla soglia della porta.

Con un pò di nostalgia, allora tornavo a casa con i miei genitori, dove avrei visto domenica sprint, ma non sarebbe stata la stessa cosa: domenica sprint alle otto di sera era un pò come già una pre-scuola, insomma significava che poi si ricominciava.

Comunque, se c’era stato un gol molto bello della Fiorentina, telefonavo a mio nonno per ricommentarlo anche alle dieci: quello era l’istante più importante, perchè lui era già a letto ma si rialzava per parlare con me di un fatto magico che avevamo vissuto poche ore prima insieme.

Parlare con me era dunque qualcosa per cui valeva la pena alzarsi dal letto.

Supervisio-amiamoci

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RIflettevo su quello che sta succedendo in molte piazze italiane: virtuali, reali, professionali, amicali.

I gruppi sono frammentati, e invasi da legami – K, direbbe Bion: scivolano cotidie nella prepsicosi, nella posizione schizoparanoidea, nell’ansia persecutoria del carnefice, nell’attesa inconsistente dei messia, nell’idealizzazione massiccia di feticci: ogni dato concreto che diventi sembiante di una pulsione inconscia indigerita e non pensata.

Il pensiero è minato da una miriade di oggetti bizzarri, agiti imperanti, lotte col coltello tra i denti. Mi sembra che siamo tutti un pò pirati senza tesori da cercare o mappe da scovare per andare a cercare tesori.

I legami sono lassi e ci si rivoltano contro: un giorno mi sei amico, un istante dopo sparli, poi mi ritorni amico ed io sono confuso, perchè confido nella presenza di concetti come memoria o coscienza, mentre tu mi racconti il contrario con lo svolazzio frivolo della tua esperienza.

Il tempo è diventato un “solopresente“, struttura olofrastica e quindi psicotica: non vengo mosso da un valore o da un’ideale in cui infuturarmi, non vengo mosso dalla memoria di un errore passato, non vengo mosso dall’ansia di un giudizio imminente ma dal polpettone intrapsichico che è fatto da: la riduzione dal danno, la salvaguardia personale, il solletichio immaginario del mio io, l’abbuffata di pulsioni, l’annullamento del margine di rischio, il bisogno di corporativismo “come se”,  l’angoscia di un “noi” maniacale contro un “voi” bastardo, e cosi via.

Potremmo supervisionarci a vicenda con amore, attenzione, rispetto, integrazione nelle differenze e passione. Creare una rete pensante ed amante dove fondare un progetto virtuoso: questo potrebbe partire dal basso, dal confronto sulle nostre reciproche innocenze, carenze, mancanze e paure.

L’amore creerebbe allora legami stabili e non perturbabili dalle intemperie emotive. L’amore creerebbe nuovi contenitori di senso sulle ceneri delle nostre reciproche crisi: valoriali, economiche, familiari, professionali ed esistenziali.

Dovremmo far capire che è dalle relazioni di amore – dove per amore intendo il concetto più ampio di condivisione di passioni non distruttive –  che nasce l’economia di buoni gruppi, che si rispetterebbero in una versione armonica del conflitto, dove sarebbe bello parlare di quello che secondo te io credo mentre io parlo di quello in cui secondo me tu credi.

Non è l’economia che crea amore: piuttosto, penso che sia l’amore a creare economia.

Dovremmo denunciare la mancanza di amore che pervade la nostra vita: eppure non lo facciamo; o meglio, facciamo capolino – come un bambino in punta di piedi –  ma è come se ci vergognassimo nel pretendere di fondare una società sull’amore.

Penso che una delle cose di cui ci vergogniamo in assoluto sia il nostro bisogno di amore nella versione pubblica di noi stessi. Ci rintaniamo nelle nostre case, ad autogenerare un affetto condiviso con i nostri cari, ma che manca di connessioni con gli affetti degli altri. A volte questo accade, ma sono come gocce estemporanee di rugiada.

Il nostro io pubblico diventa così il mondo del cervello sinistro: dell’efficienza, della strategia, della performance svincolata dall’eros. Scisso dal primo, il nostro io privato abbonda invece di eros senza sfondo, senza scheletro, avvitandosi su se stesso.

Il cervello tagliato a fette abbonda nei tempi di magra: a volte perdo la speranza che sia possibile supervisio-amarci.