Le cavallette, per caso.

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Nel mio lavoro mi chiedo cosa sconvolga l’assetto di una vita o cancelli le prospettive di speranza. Da piccolo pensavo alle catastrofi, o ai terremoti, o ai cataclismi. Immaginavo la fine del mondo e la terra invasa da cavallette, provenienti da qualche non so che.

Tutto questo, in buona parte, c’è già. Ed è come il peggior spavento che si realizza, a parte le cavallette. Da grande ho infatti imparato che al posto delle cavallette gli inconvenienti di oggi sono molto meno affascinanti. Si travestono in modo accondiscendente. Ad esempio, con l’indifferenza della gente, o la sua grettezza, o la stupidità, che viene incredibilmente premiata ad ogni talk show. Con l’ombrello in mano, e le mani in mano, rimaniamo in attesa di un compromesso, di una rivoluzione o della costruzione di una nuova stazione, di arrivo o di partenza.

E’ la mancanza di cultura il vero mostro. Striscia lungo le strade del centro e della periferia distribuendo a buon mercato usanze e credenze che annullano la fatica, il merito ed il desiderio.

Le persone soffrono per mancanza di cultura. La cultura si misura non con i libri ma con lo spessore di vita. Con l’uso intelligente del dolore mentale, un moderato senso di pazienza ed i sogni che trainano. Per questo, apprezzo la cultura di un pescatore intirizzito, che mi fa una lenza, appunto con pazienza. O quella di un giornalaio della domenica, che la carta dei giornali non è come venti anni fa. O quella di un impiegato di banca consapevole, che si ribella al suo personale regime con un’alzata d’occhi di fronte al Direttore.

Quando la cultura di qualcuno mi viene tramandata con passione, io soffro meno. La depressione che deriva dal vuoto di cultura è invece ammorbante ed asintomatica. Ce lo dice la gente che ha deciso di non mentire a se stessa. La depressione culturale mimetizza il vuoto e ne diventa l’artefice. Lobotomizza il senso di responsabilità e annienta le prospettive. Plastifica la vita, incellophanandone ogni metafora. Ne siamo tutti emissari nella misura in cui “non c’è niente da fare”, “cosi è se vi pare”, “si fa quello che si può, nonostante tutto”.

L’ansia che nasce nel vuoto di cultura è puro impulso a distruggere o a costruire alla rinfusa. Si fa. Si delibera. Si genera. Si pontifica. Si legifera. Si agisce. Si riforma. Si informa. Si vota. Si canta. Si suona. Si beve. Si mangia. Ne siamo tutti prima o poi attori, ne siamo tutti prima o poi preda. Rutila nel traffico e nella segnaletica stradale. Si arrabatta a sfornare un fac simile di sentimento, che se lo porti via il vento, perchè non ci interessano i sentimenti fotocopia. Sono più poetici il rombo dei motori, il clang degli ammortizzatori ed il nome della marca di certe lattine d’olio.

C’è una sorta di autorizzazione sociale che mi spaventa. Accettiamo che sia così. Permettiamo soprusi e li accogliamo in casa con mestizia, come nel peggior medioevo, pretendendo di inculcarci dentro la convinzione che non ce ne potremo mai difendere.

Le categorie di senso, i paletti educativi, i fattori di contenimento, la protezione delle famiglie, i racconti dei nostri nonni, il mito dei bisnonni, la storia di esistenze etiche, sono diventati la penombra di noi stessi.

Io per primo li ricordo come un prima rispetto a questo dopo, dove la gente rincorre le conseguenze di progetti di vita per caso, che sono milioni, come le cavallette che da piccolo immaginavo avrebbero invaso il mondo.

G.

(Grazie al mio amico Lando per la splendida foto del post.)