I sintomi dei chilometri

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Ci sono cose che non hanno significato, se no non sarebbero cose. I chilometri, ad esempio, hanno un puro spessore cosale per quanto non siano un oggetto.

Si spalmano sul costo della benzina che ci vuole, su quanto tempo ci hai messo, su quanto male fanno i crampi che generano, su quanta batteria dell’ipod hai consumato. Quante persone hai portato, quanto qualcosa. I chilometri si nutrono del tuo quanto. Sono veri capitalisti in incognito.

Certe cose sanno essere democratiche, anche. Per esempio, i chilometri. Prete o brigante, marito od amante, professionista o lassista. I chilometri non ci chiedono la carta di identitá. Per loro siamo tutti uomini e donne senza qualitá, come diceva Musil, il che non è poi così male.

Ci sono cose che non hanno memoria. I chilometri, ad esempio, che non si ricorderanno mai. Tu li temi o li ami. Li eviti o li aspetti. Li ricordi e ci ricami sopra storie. Buoni o cattivi. Facili o difficili. Per lavoro o lungo il mare o lungo la montagna. Per loro, non sei un qualcuno. Non sei un oggi o un allora.  Casomai, un quanto all’ora. 12, 52, 76, 98, 125. Occhio alla lancetta, che individuare il pericolo sta solo a te.

Ci sono cose che non hanno desiderio. I chilometri, ad esempio. Autonomi. Narcisisti patologici. Senza reazioni emotive. Hanno il cuore di pietra e le vene laminate d’asfalto. Vampiri della nostra energia. Non ti vogliono ma ti accolgono, come locande aperte e un pò sciatte che ho incontrato in certe periferie, senza portiere a chiedere niente, con il solo pass per le carte di credito, un cartello con sopra scritto quanto costa dormire, un cancellino che si apre e dice: thank you.

Ci sono cose a cui noi siamo indifferenti. Per esempio, i chilometri. Bianchi o neri o gialli. Al nord o al sud del mondo. I chilometri non sono mappa ma territorio. Se ne fregano delle discese e delle risalite. Dei boschi e delle riviere. Dei confini e dei lignaggi. Dei linguaggi e delle appartenenze. Dei linciaggi e delle sentenze. Del trucco e delle apparenze.  I chilometri sono i veri compagni metafisici del viaggio e non fanno differenze: le code sono per tutti.

Ci sono cose che mi piacerebbe se potessero parlare. I chilometri, ad esempio. Che ci vedono sorridere o arrossire. Sbirciare il tramonto o dove sei. Fare di corsa per arrivarci, alle sei. Prendere multe. Urlare cantare sbraitare. Piangere amare e odiare. Mangiarsi le unghie. Strofinarsi il collo. Massaggiarsi la barba. Guardarsi e dirsi ci siamo.

Come cechi vojeur, i chilometri ci osservano con i nostri occhi. Ammasso che pulsa emozioni. Archetipi dei dinosauri, di nostro zio e dei suoi antenati. Dei convogli e delle carrozze. Di esili e conquiste.

Calcolo minuzioso dell’ossessivo. Vincolo del fobico. Porto di mare per chi cerca pericoli. Ancora per chi fugge da qualcuno o qualcosa.

Ma anche il mare quando lo vedi. E quell’improvvisa ondata di fresco, che siamo più in alto. La neve che prima non c’era: ah già, che da noi la neve non casca: siamo in montagna.

La pioggerellina che bagna e dici finalmente il cristallo lo lavo. Un lago che ti chiedi ci saranno li i pesci. Un autista che ti affianca e lo senti giá amico. Un altro, non sai perchè lo chiami invece nemico.

Quanti ne abbiamo fatti secondo il nostro  contatore interno? Quanti ne ha fatti l’intera umanitá? Giuro. Darei non so cosa per saperlo, che ad ogni giro e ad ogni corsa, esiste un numero esatto.

I chilometri non hanno religione o principio morale. Sono puro materiale immateriale. Cani, gatti, odore, sudore, dolore. Pneumatici sgonfi, va be controllerò. Una spia che si accende, un pensiero che ti tormenta: e se la macchina d’improvviso esplode?

Il monito della riserva. Un piccolo bruciore ogni volta che paghi. I soldi per il carburante sono fatti di catrame. La tappa all’autogrill: quel caffè dal sapore tremendo, ma che lì è il più buono del mondo. Che poi, ormai, bevi solo quelli. La caffettiera che da piccolo borbottava. Acqua frizzante. Una pellicola che scorre, brevi strofe da scrivere.

Il segnale lampeggiante. Rallentare c’è un hazard. Quando andavi impettito a scuola guida. La prima macchina che non c’è più. Il clang sotto la coppa che ti lascia perplesso. Un umore dimesso.

Din don, a cento metri c’è un autovelox. Questa incredibile cosa che è il navigatore: sia benedetto il navigatore. Fare a gara con le nuvole. Giocare a nascondino con il sole. Dire dai, che al mare c’è il sole. E la tua giornata prende improvvisamente colore.

Tutti titoli, tutti aneddoti, tutti enigmi.

Figli dei chilometri sono sintomi buffi, che vorresti guarire, o forse no. Un pò di impaccio e dolori articolari vari. Le caviglie che scricchiolano. Un cerchio alla testa costante. Soglia dell’attenzione sempre up. Il girovita da tenere sotto controllo.

Che c’è un sorpasso, o una curva da fare. Una sterzata brusca che salva la vita. E Poi.  La sindrome dei lavori per strada. Una sorta di ansia anticipatoria strisciante. Guidi tranquillo e ti dici. Ora incontro i lavori, ora ci sono i lavori, stai a vedere che becco i lavori.

Zacchete: eccoti i lavori. No. I lavori no.

Stare più eretti, o stare un pò curvi. Smarcarsi improvvisamente, sentirsi veloce, usare il freno, a volte a mano. Fare a gara con il treno, ma tanto lui va come un fuso. Individuare la piazzola. Parlare dialetti diversi, mischiare il linguaggio nelle culture che incontri: farsi cullare dalla nenia di un detto o di quella calata.


Viaggiare crea una dipendenza strana, un’acre sensazione di libertà. Stare immerso nelle mappe, alla ricerca di un territorio. Tanta fatica, ma poi pensi: sgranchita la schiena, tra i chilometri, nonostante tutto, mi sento un nomade felice.

E vai.

P.s.

Ma no. I lavori per strada, per piacere no!! 🙂