Ci sarà una volta

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Le storie iniziano sempre con c’era una volta. Questa invece inizia con il futuro, perchè è semplice creare un alone mitico con l’imperfetto.

Provaci col futuro, in Italia:

“Ci sarà una volta…”.

Ci sarà una volta che?  Ora mi chiedo cosa ci sarà, una volta, in Italia. Perchè me lo domandano i miei figli e me lo chiedo spesso io di notte, quando incoccio una nottata strana, in cui i sassi del sentiero sono più numerosi del solito ed è difficile arrivare al risveglio, perchè sei sempre stato, sveglio.

Ci sarà una volta che me, ci sarà una volta che te, ci sarà una volta che lui o lei. Non riesco a raccontare che questo, in un momento storico dove  le uniche garanzie ce le dobbiamo fornire noi sfornando pane, idee e fantasia, ogni sacrosanto giorno che passa.

Poi ci chiedono perché non ci rilassiamo mai, siamo sempre  frenetici e ne “facciamo mille”. Vi è mai capitato? Io ho imparato a non badare troppo a quelle domande. Quando capitano, provengono, con ogni probabilità, da un altro pianeta.


Quando racconto la storia che si chiama “ci sarà una volta”, racconto in giro che la crisi ci ha dato l’opportunità di esprimere i nostri talenti, che per numerose generazioni sono rimasti impaludati nelle sabbie mobili delle sicurezze.

Dico di sfruttare questa incredibile opportunità. E ne sono fermamente convinto e, sotto sotto, contento, perchè non sostituirei mai la precarietà che sta sotto alla creatività con il pericolo dell’inespressione nelle dimore sicure.

Ma che fatica. Di solito prende in questa parte dell’anno, che visivamente mi ricorda una camminata infinita in mezzo alla steppa.  Peraltro affascinante, non sia mai, a patto di trovare un’osteria dove bere un brodo caldo ed un giaciglio sufficientemente comodo per difendersi dalla tempesta.


Camminando nella steppa, penso a cosa ci sarà una volta che  i ragazzi di oggi cominceranno a sentire gli acciacchi. Ora il fisico carbura, ma poi? Cosa ci sarà una volta che l’entusiasmo si abbassa, il mal di ossa ci attacca ed un’influenza ci costringe a familiarizzare con concetti ignoti come malattia e convalescenza?

Nella steppa, insomma, non si trepida per un’elezione, per un referendum o per un voto politico. Queste cose ci interessano in modo periferico, perchè siamo di poche parole e ragioniamo di altro; molto più volentieri, ad esempio, di dove si nascondono in inverno i criceti russi, che si risvegliano solo a primavera.

Di solito si cammina e basta, e ci si guarda di straforo nel buco che rimane tra il pastrano, il cappello e lo sciarpone, con una sollevata di sopracciglia. Non è un saluto di circostanza, ma quello che si può tra le evidenze delle reciproche sopravvivenze.


Oggi è una giornata strana, in cui raccontare questa storia mi fa un pò più paura. I camminanti della steppa ci sono abituati. Sarà tutto questo vento, sarà la grandine che prendono, e quei piccoli contrattempi che quando capitano, capitano tutti insieme, in un imbuto stretto, a far vedere la vita ristretto, ciuffo d’erba dopo ciuffo d’erba.

Ci sarà una volta che passa. Perchè ai bambini dovrai pur raccontare la storia che la steppa finisce e si rivedrà il mare.

L’ordine delle cose

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In autunno voglio il fuoco che scoppia, in inverno la neve che cade, in estate il sole che scotta, in primavera un fiore che sboccia.

Nell’attesa voglio l’ansia di vivere, nella vicinanza qualcosa che manca, nella distanza la lontananza, nel resto quello che avanza.

Nell’antipasto il sapore più forte, nel primo ordinarlo due volte, il secondo incartocciarlo perfetto, il caffè berlo sempre corretto.

Diplomati per lavorare, laureati per fare ricerca, alambicchi per gli scienziati, le traiettorie di vita chiamarle fati.

La passeggiata per digerire, la corsa per alleggerire, le flessioni per sedare la colpa, che tanto le fai solo una volta.

I misteri per quel fatto di ieri, la certezza per una visuale più netta, la penombra perchè mi asseconda, tra il lusco ed il brusco del mare in un’onda.

Il giorno per pensare a cambiare, la notte per cambiare il pensare, perchè sono i fatti a fare i miei mondi, nelle strofe dei miei bisogni.

Sarebbe bello infatti cantare che i sogni trasformano il mondo, ma a casa mia, se non mi confondo, il tondo fa rima con tondo.

Panico e violenza

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Continuiamo a simulare un’esistenza normale. La simulazione è diventata il nostro meccanismo di difesa preferito, una specie di velo magico che applichiamo alle cose che non vogliamo vedere.

Crediamo che il lupo cattivo sceso dalle montagne a divorare la pecora sia stato uno sbaglio o un’aberrazione della natura, e che non succederà mai più, perchè i lupi cattivi appartengono sempre all’altro e se ne stiano tra di loro a divorarsi tutte le pecore che vogliono nel bosco.

Dovremmo invece cominciare a chiederci noi adulti quello che i ragazzi non sanno chiedere se non con il panico e la violenza. Il panico e la violenza dilagano e rivelano la mancanza di codici di senso in società adulte sonnacchiose e rassegnate, ancora rattrappite sulle toppe del benessere del dopo guerra e di una vita come se. Incapaci di una visione proattiva, di incanalare la pulsione e di fare cultura, di aprire al terzo e al diverso. I ragazzi tutto questo lo sentono e lo agiscono.

Certi modi di vivere sono estranianti perchè non osano contenere il naturale bisogno di slittare dell’adolescente. Le nostre città sono come un dedalo di binari precostituiti dal narcisismo delle comunità adulte e dal pudicissimo senso post-borghese della morale in cui pretendiamo si muovano i ragazzi con ordine, rispetto e riconoscenza; valori di vita che, per legge di natura, magari dovremmo insegnare noi a loro e non pretendere per nostro comfort esistenziale.

Il panico denuncia il senso di soffocamento, l’amore morboso e irrisolto, la patologia di altri che, evacuata in me, vive egoaliena, rendendo difficile fare i compiti in classe e seguire le lezioni, confrontarsi tra amici e farsi una vita. Il panico diventa i tagli sulla pelle, la fuga da casa e l’indicibile.

Il panico parla di tradizioni culturali asfittiche, di tabù irrisolti nella penombra di esistenze familiari moderate dalla vergogna e dall’ossequio del non si deve, non si può, non esiste, non si fa, facciamo come se la vita fosse bella a prescindere, senza sessualità e senza aggressività.

La violenza sopravanza invece la dimensione della protesta e diventa attacco ai legami di pensiero, ai legami tra le cose, alla richiesta di ogni oggetto, alla voglia di amore. Diventa parodia macabra della passione, come decibel sparati addosso, fiumi di inchiostro su pagine che ogni giorno si rilavano e restano bianche, nella beata indifferenza del mondo adulto, capace solo di rimproverare in modo cerbero o di predicare in modo eucaristico.

La violenza è tutto quello che i miei genitori, ed i miei nonni, ed i miei avi, ed i loro amici, ed i loro parenti, e gli amici dei loro parenti, ed i loro conoscenti, e tutti quelli al loro fianco, non hanno potuto o voluto dire, fare, baciare, lettera o testamento. La violenza è chiedere un conto nel modo sbagliato, è pretendere un riconoscimento mai stato aggredendo, è un atto pericoloso che da protesta legittima si trasforma in liquido corrosivo nel paniere già bacato della nostra società.

Eppure basta poco coi ragazzi, solo instradare, solo degnare di attenzione, solo manifestare comprensione, solo dare l’esempio che si può cambiare direzione dello sguardo e dell’inclinazione della testa, quando ci parlano, se si è ancora in tempo.

Sveglia.

In ogni solitudine, c’è un verso di poesia e direzione

LUNANOTTE

 Sottofondo – “in un mi minore”

di Stefano Cencetti

Il titolo è il verso nella solitudine che ho scritto ieri, e che magicamente ha trovato nota (in “un mi minore”), la nota di un caro amico, Stefano Cencetti, che è musicista e direttore d’orchestra, e che fa musica seria, mica come la mia, che la notte se la porta via.

Il tocco del “mi minore” viene da Federica Totaro (direttamente dal suo angolo della Fede). E il pezzo di Stefano lo senti in sottofondo.

Al primo anno di psicologia, poco più che ventenni, con Stefano si parlava di come sarebbe stato bello battere i piedi per pomeriggi interi sui marciapiedi. Da quell’immagine, ci siamo incontrati quest’estate in una frettolosa cena nei dintorni di San Casciano, a qualche festa dell’unità, a raccontarci delle reciproche traiettorie di vita, semplicemente con il piacere addosso e la voglia di scriverci e suonarci sopra. Che a me, se togli le note e la penna, e magari la chitarra, non rimane poi molto.

Allora Stefano oggi mi ha fatto un regalo, che mi piace vederlo come un regalo di Natale ritardato. In quei due minuti di tempo che si è dato, il suo talento e la sua sensibilità hanno gettato giù questa melodia che è struggente e rappresenta proprio la mia musica, che lui sa e riconosce, perchè la sente dentro.

Improvvise fette di sole nel buio che movimenta. Una casa brumosa in Irlanda alla fine di una corsa, proprio quando il calore del corpo ha ammansito il freddo pungente. Poi mi sa di spiaggia in Spagna, si e no a tre quarti dell’estate, si e no a tre quarti del pezzo. Poi ritorno in Norvegia, a mezzo fiordo di distanza dall’età che avanza.

Grazie Stefano, sicuramente verso di poesia e direzione.

Si fa un disco.

Pescare niente è bellissimo

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Ero a Calafuria, vicino Livorno, ed era un mare mosso ma non molto, giusto quello che ti serve per dire oggi abboccano, e posso andare vicino alle onde senza bagnarmi, vedrai che abboccano.

C’erano dei bambini che scoppiavano in ritardo petardi, il chè non ha disturbato tanto me, o i mei bambini, ma la mia canina Lola si, che si è infrattata dentro ad una roccia e ho dovuto consolare.

Poi ho provato con la bombarda, comprata anni fa a Pontedera, che è un bussolotto di plastica che scodinzola a mezzo mare, dice che richiami le occhiate, ma anche stavolta non ha richiamato niente se non l’eco del mare, e qualche schiocco sonoro sullo scoglio, che sembrava dire io ti voglio.


Pescare niente è bellissimo. Ti dà la misura di quanto è bello pescare.


Poi c’era accartocciato sotto me un volantino del movimento 5 stelle, dove si chiedeva la tua adesione per il referendum, che è uscire dall’euro, al che mi è preso un pò di tristezza, ed un compulsivo controllo del portafoglio nel giubbotto, che se cadesse quello in mare, con gli euro dentro, ed i documenti, sarebbero guai.

L’ho cestinato nella bottiglia di plastica perchè era illeggibile, insomma inutile, e sarebbe finito in mare, che non è bello inquinare. 

Poi, si e no, due o tre volte, ho provato con il galleggiante, i miei figli giocavano con l’esca, si divertono a gettare l’esca al mare, mentre la speranza di pescare qualcosa se ne andava a naufragare.

Dai che lo prendo, un branzino, o come lo chiamano qui, ragno, un pesce grosso, di quelli veri, mica la magra pietanza che ti offre lo scoglio, che è il pesce di scoglio. Inutile, ‘sta voce di sottofondo rimarrà sempre, al di là del principio di realtà ma senza essere principio di piacere.

Galleggianti a goccia e a pallina, piombati ed affusolati, pesanti e leggeri, con la lenza di oggi e, soprattutto, con quella usata ieri (che anche la lenza al giorno d’oggi costa).


Ma i pesci rimangono tutti per l’altro, questa è la sindrome del pescatore, il pesce che non prendi non è un pesce in sè, ma un pesce prendibile dall’altro pescatore.


In fondo, laggiù a la Capraia, c’erano tre navi grosse, immaginavo dentro ci fosse qualcosa di importante, ma forse erano solo tre grosse navi,

tre grosse navi tra tante.

Poi è arrivato uno squarcio di sereno, un raggio di sole potente e bello pieno, e mi sono improvvisamente detto è estate, mi getto in mare, che tanto è estate,

ma eran solo fate.

Poi l’ondone freddo come al solito è arrivato, mi ha lasciato li mezzo inzuppato, con i miei figli a ridere e a dire “è sempre il solito”, e ho cominciato a fare il buffone, e la canina Lola, dall’istinto della protezione,

cedeva a quello della derisione.

Poi ho intravisto la Corsica, le mie falcate calde su chilometri di spiaggia rovente, i polpi ci zampillavano dentro, un improvviso senso di pace della mente,

ed i tendini tirare.


Erano le quattro e poi, poi, poi… poi arriva la Befana. Via bambini, chiamate la mamma, per oggi s’è finito di pescare, si va al ristorante, si ordina un fritto, che oggi si mangia comunque.