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Approfondimenti tematici e spunti clinici

Quando la comunità vince sulla pioggia

Nei miei viaggi in macchina

batte il sole 

ma fa più male la fitta grandine 

e le code di macchine incolonnate

e la paura che uno scroscio d´acqua 
annebbi la vista.

 

Ma quando torno a casa 

sfidato e vinto lo scroscio d´acqua 

sento quanto è intimo e vero 
quello che ho appena conquistato.

Al Parterre di Firenze, in una giornata dalla pioggia battente, decine di persone hanno partecipato alla presentazione del mio libro “Non esiste una giustificazione. L´uomo che agisce violenza domestica” e del libro di Alessandra Pauncz “Trasformare il potere. Come riconoscere e cambiare le relazioni dannose”, entrambi editi da Romano Editore. Ha coordinato e presentato l´evento Gianluca Paolucci, Presidente del Quartiere 2 di Firenze. Uomini e donne, ragazzi e ragazze di tutte le età si sono confrontati sul problema scottante della violenza domestica; di questo argomento si occupano infatti i nostri due libri, che fanno parte della collana Trasformazioni a cura del Centro Ascolto Uomini Maltrattanti di Firenze, il primo Centro in Italia che dal 2009 si rivolge ad uomini autori di comportamenti violenti nelle relazioni affettive. Chi è l´uomo maltrattante, lontano da stereotipi e pregiudizi? E´ possibile aiutarlo a cambiare attraverso un approccio centrato sulla persona e focalizzato sulla violenza? E come sostenere la donna in un percorso che rinforzi le sue capacità di autodeterminazione e di trasformazione delle relazioni dannose in cui si imbatte? Il dibattito è stato produttivo; come spesso ripeto “c´è bisogno di un coro” che unisca tutte e tutti, professionisti e non, in una tensione volta a parlare della violenza attraverso un linguaggio ed un sentire comune che ci rendano protagonisti di un cambiamento sociale caratterizzato dal confronto delle idee, dal rispetto e dall´integrazione delle differenze. La violenza, prima che con gli interventi clinici, si combatte attraverso un´educazione collettiva dei sentimenti; un incontro da ripetere, dunque, perché bisogna insistere e resistere, per ricordarci che siamo vivi ed in grado di trasformarci. Grazie a chi è intervenuto e a chi ha organizzato questa serata un po´ magica, che ha avuto la meglio sulla pioggia battente…

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In questo periodo della mia vita, mi sento circondato da incontri causali. Gli incontri causali sono animati da una portata di senso ma non precedentemente pensati come tali. Qualcosa di più di quelli casuali, qualcosa di meno di quelli progettati. E di portata creativa immensa perché ci spingono ad una interrogazione viva, che mette in moto un flusso strano, che ci anima della forza per cambiare. Imprevedibili e brucianti, ci attivano e ci rassicurano. Uomini donne ragazzi e ragazze e bambini e bambine. Causalmente incontratisi.Chi è predisposto ad un incontro accetta una sfida: Winnicott forse li chiamerebbe incontri che appartengono all’area transizionale, che sta a cavallo tra sogno e realtà.

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Ero nella mia città. Nel suo cuore, che coincide con il mio quartiere. Ringrazio mia madre, energica donna combattente e capace di una tenerezza affettuosa e di un aperitivo che tutto era tranne che light. Ha organizzato l´evento meglio di un catering. Mia moglie Cristina che nutre da vent´anni la mia vita e i nostri figli Davide e Gabriele, che sono il mio orgoglio. Amo sentire le voci dei miei figli dietro al palco o nella “stanzetta accanto” quando parlo del mio libro. Le “stanzette accanto” sono fondamentali e chi c’è dentro crea quell’entropia che a volte serve. Scorrazzavano nel posto che li ha visti crescere…tra i mercatini rionali, le mostre di funghi o di animali esotici. Ero proprio li, in quella stanza magica che cambia faccia a seconda delle occasioni. Dove ho partecipato a concerti, assemblee, discussioni e analisi approfondite di insetti e di serpenti. E poi abbraccio mio padre di cui ricerco gli abbracci. E poi mio fratello Francesco alle riprese: dai! I miei suoceri ed i miei zii. Lando e Vieri e poi Alessandro e tutte le altre dense turbolenze della mia vita. I vecchi compagni universitari, i vecchi amici un po’ persi per la via, quelli che non c´erano ed a cui ho pensato. Compagni di strada, facce note e meno note, tutte all´unisono. Un pensiero da pendolare corre dolce a chi veniva da Pisa e da Lucca in una giornata ostile, come quelle che guarda caso spesso incontro quando parlo di violenza. Ringrazio il Presidente del Q.2. Paolucci e la sua lucida introduzione. Il Comitato parterre ed il quartiere tutto.

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E´ iniziato il dibattito. Con Alessandra Pauncz mi sono sentito al fianco di qualcuno che nella mia vita è molto importante. Nel fiume libero delle impressioni ho avvertito un coro fatto di consapevolezza e sentire comune, di cui in Italia vado alla ricerca come rabdomante. Parliamo di violenza, ma ci interroghiamo tutti, uomini e donne, come persone. Basta poco perché ci guardiamo e ci comunichiamo un´urgenza che sta appena dietro ai nostri vestiti e ci fa sentire comuni. Credo sia la nostra necessità di vivere sentendo. Professionisti di ogni tipo e di ogni età, contro gli spartiti e gli steccati. Credo sia anche il bisogno di dare un senso agli eventi e avvertirsi protagonisti attivi di una soluzione, che tanto non viene dall´alto: perché dall´alto sembra solo piovere confusione, che appunto annebbia la vista.

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Il maltrattamento può diventare via facile di fuga dalle difficoltà quando manca il senso del limite e il riconoscimento dell’essere? Quando manca una dimensione etica come base del vivere? Quando veniamo infarciti di incontri casuali – non causali – e false prospettive immaginarie? Il maltrattamento può attecchire quando come cellule impazzite smettiamo di comunicare sui sentimenti, atrofizzando le nostre vie espressive? Chi spiega ai nostri bambini che il tono della voce è importante? E che il rispetto delle differenze nasce quando la differenza la fanno più o meno gormiti e figurine? Chi si occupa di insegnare loro a generare la speranza, rispettare la distanza, ricercare la vicinanza, stimolare la ricerca dell´altro, a industriarsi per combattere in modo non compulsivo la noia e creare alternative possibili alla fame di oggetti? Chi assiste famiglie che, se va bene, sono disorientate e in preda all´ansia della sopravvivenza? Chi alimenta la dimensione della ricerca quando siamo rosi dalla ricerca del tozzo di pane?
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Ieri forse è stato possibile per me riflettere in modo nuovo su questi vecchi interrogativi, perché ho sentito di far parte di una Comunità. Che non è la famiglia. Non è il gruppo di amici o di colleghi, o il senso di appartenenza prossimale ad una qualche forma di identità. È qualcosa di più forte, che viene dalle viscere, e che mi piacerebbe chiamare semplicemente amore.

Le reazioni degli altri al sentirmi parlare di violenza

In questi giorni di fibrillazione successiva alla uscita del mio libro – fatta di mail, contatti e nuove conoscenze – devo ammettere di essermi sentito rianimato da una vitalità che per mesi, dopo la consegna delle bozze alla Casa Editrice, è rimasta incubata tra emozioni di tipo depressivo e la voglia di tornare indietro. Adesso che il libro è uscito, sento invece il bisogno di parlarne e dunque mi confronto con chiunque mi capiti sotto tiro: dalla persona comune, all’amico collega, ai colleghi con cui opero quotidianamente, al professionista interessato ma non direttamente coinvolto. Questa occasione di confronto è una straordinaria palestra formativa per verificare il punto in cui siamo come società e come comunità nel recepire il messaggio di fondo che lancio nel libro: e cioè, che se vogliamo combattere la violenza dobbiamo saperne parlare con gli uomini tanto quanto con le donne, con i professionisti tanto quanto con la gente comune; e che se vogliamo combattere la violenza dobbiamo creare il principale antidoto che è la non-indifferenza e la capacità di divulgare in termini semplici quello che sottostà ai numeri impressionanti attraverso cui la violenza fisica, economica, psicologica ci invade nelle molteplici forme, istituzionali e non. Quando parlo di Non esiste una giustificazione e della sua uscita, osservo dunque uno strano fenomeno, che è la reazione delle persone al sentir parlare della violenza; una reazione che cerco di analizzare in queste poche righe, e che appare potenziata dal fatto che il libro si impernia sulla necessità di lavorare con gli uomini che l’agiscono. E’ indubitabile che l’argomento solleciti l’interesse di molti/e, alla luce dei ripetuti femminicidi avvenuti in Italia negli ultimi mesi. Ciascuno/a si congratula e sta a sentire, non esimendosi dal dedicare un minuto di attenzione ad un argomento così scottante; possono del resto essere raggruppate quattro reazioni tipiche che individuano quattro profili possibili di lettori/lettrici e che ci dicono qualcosa su come stiamo percependo la violenza.

Il/la rifiutante – I/le rifutanti/e sono rappresentati/e dalla schiera di persone non particolarmente informate e poco propense a farlo. Quando leggono la parola “domestica”, dopo aver manifestato una blanda espressione di interesse, si allontanano come si fa con la mano dal fuoco: troppo pericoloso. Ho avuto spesso la sensazione che, se il libro fosse stato scritto sull’uomo violento in generale, forse avrebbero potuto avvicinarsi con minor timore di sentirsi coinvolti in un argomento scomodo che è meglio tenere lontano. Il silenzio enigmatico è come se lasciasse trasparire un pensiero dominante: “Ma di che mi parli?! Per fortuna a me questo problema non mi tocca!”. In termini riduttivi, questo tipo di lettore/lettrice si potrebbe inquadrare come “ignorante” – ossia poco propenso alla lettura e quindi ad acculturarsi – ma non credo che questa spiegazione basti. Mi piace piuttosto sostenere che queste persone siano appunto “rifiutanti” e che, se facilitati/e, possano diventare emotivamente competenti sull’argomento più di quanto si possa immaginare, e contribuire ad un cambiamento sociale. Forse anch’io anni fa ero un rifiutante e posso capire quello che si prova: la paura porta all’erezione di muri. Quando parliamo di violenza, siamo infatti tutti implicitamente chiamati in causa rispetto ad un tema verso il quale applichiamo potenti barriere difensive che espellono la questione fuori da sé: appunto, riguarda qualcun altro, un altro ostile da guardare in cagnesco o, meglio, non guardare proprio. Così nasce il mito dell’orco, del mostro o del lupo cattivo. Per proteggere il nido da eventuali intrusioni di consapevolezza su quante violenze possano essere quotidianamente agite o subite, il/la rifiutante fugge allora dalla possibilità di familiarizzare con un tema che è molto più facile tenere fuori dalla porta di casa, senza accettare il fatto che in qualche modo, o in qualche forma, vi è già entrato o vi entrerà. Se lasciati/e a loro stessi, i/le rifiutanti sfuggono e delegano ad altri, contribuendo a far nascere quell’atteggiamento di omertà che è il miglior concime per il proliferare della cultura della violenza. Allora cerco con tatto di informare il/la rifiutante che il tema lo/la riguarda da vicino: quante volte è stato vittime di musi protratti per giorni o di scenate che lasciano il segno? Quante volte si è sentito minacciato/a, umiliato/a o svilito/a da una persona cara? O non riconosciuto/a o ascoltato/a? Il/la “rifiutante” accende allora una breccia, nella quale lo lasciamo stare a riflettere, e su cui è forse è prematuro insistere. Già il passaggio dalla precontemplazione alla contemplazione sul problema, con il/la rifiutante è un piccolo successo.

La lettrice coinvolta –  Tante persone – per quanto semplici e prive di una preparazione culturale e sul fenomeno della violenza in particolare come i/le rifiutanti – si appassionano invece al libro. Parlo dunque di lettrici e non di lettori coinvolti, perché in questi giorni ho avuto modo di constatare quanto sia più facile trovare coinvolgimento sull’argomento da parte del genere femminile che del genere maschile, sperando presto di ricredermi. In queste lettrici, lo sguardo rivela una qualche forma di consapevolezza già raggiunta, molto probabilmente a causa di una violenza subita o di una sensibilità acquisita sull’argomento tramite il coinvolgimento personale in vicende dolorose di amici o familiari. Le lettrici coinvolte sono felici del fatto che finalmente qualcuno provi a dar voce agli uomini, che in qualche modo hanno abusato di loro, o di qualcuno a loro caro. Nel libro intravedono una possibile risposta all’universo di equivoci, umiliazioni e contraddizioni che hanno subito o visto subire, senza poter far niente. Queste donne hanno da raccontare una loro storia, fatta spesso di delusioni, sofferenze, attese e indifferenze. Storie che potrebbero tranquillamente stare in uno dei capitoli di Non esiste una giustificazione. Con estrema sorpresa, ho scoperto che le lettrici coinvolte sono capaci di arrivare all’osso di una discussione e di cogliere il senso di un concetto magari tecnico, su cui io mi sono interrogato per anni. E’ vero che l’esperienza sa arrivare là dove non riescono decine di libri. Ascoltano, con il velo della tristezza e lacrime di rabbia, riconquistando attraverso il libro uno strumento di consapevolezza che non hanno mai posseduto o di cui si sono sentite spogliate. Le vedi allontanarsi con il libro ben stretto, saldo nella mano: sarà una lettura importante, con la speranza che qualche lettore avveduto si accorga della sua esistenza.

L’esperto/a rifiutante – Questo tipo di lettore/lettrice è in qualche modo esperto nel settore psico, ma non riesce o non vuole far entrare nel proprio lessico mentale il vocabolario della violenza. Urlare, strozzare, minacciare, vessare sono tutti verbi intrappolati in griglie operative che fanno fatica ad aprire le maglie ad altre modalità. L’esperto/a rifiutante ascolta interessato l’argomento ma in modo per così dire “cognitivo” – nella misura in cui risulta distaccato/a – “perché tanto lui/lei non si occupa di maltrattamento”. Magari, si propone di pubblicizzare il testo a colleghe e colleghi che lavorano nel campo, ritenendosi esente dal problema, proprio come fa il “rifiutante”. Ma un’operatore/operatrice, può permettersi di essere “rifiutante” di fronte a un’evidenza scientifica oltre che ad un’urgenza sociale? Si pone l’enorme questione di rendere i Servizi un contesto di rete in cui imparare a parlare lo stesso linguaggio e, soprattutto, imparare a decodificare in modo adeguato i reali bisogni degli utenti. A questo tipo di lettore/lettrice, cerco di spiegare quanto lui/lei stia in realtà già trattando il maltrattamento, ma senza saperlo, ed in un modo forse inopportuno. Cerco di chiarire come dietro alla falsa riga di numerosi trattamenti – individuali, familiari e di coppia – si annidi probabilmente il maltrattamento, che continua ad agire indisturbato perché non adeguatamente intercettato dai dispositivi diagnostici e terapeutici messi in campo in buona fede, ma senza successo, o magari incancrenendo il problema, che continua a rimanere misconosciuto. Questo stesso tipo di lettore/lettrice scambia il maltrattamento, spesso, per violenza fisica, continuando a psicologizzare quella che invece ne rappresenta la declinazione fenomenologica più usurante: la sottomissione sistematica e ripetuta con con i dictat e con gli atti di potere, pur senza sfiorare donne e bambini con un dito; continuando, inoltre, a chiedersi “che ruolo giochi la donna” in una dinamica che conflittuale non è, perché un ruolo si gioca quando si viene riconosciuti come altro da sé e non possedute come un oggetto.

L’esperto/a coinvolto/a –  Eccoci all’esperto/a coinvolto/a. Questo tipo di lettore/lettrice è disposto ad aprire le proprie griglie mentali ad una rivoluzione paradigmatica sul modo di lavorare all’interno dei Servizi ed in ambito privato. Consapevole che qualcosa non va e che sta aumentando in modo dilagante un nuovo tipo di domanda camaleontica ed indiretta – nelle scuole, nelle richieste di consulenza familiare o nella singola domanda degli utenti – cerca di mettere in discussione il proprio percorso formativo per integrarlo con un sapere specifico sulla violenza domestica. L’afflato che lo muove è in parte professionale ed in parte esistenziale: è spesso un’operatore/operatrice che sente la necessità di modificare il proprio modo di lavorare nella relazione di aiuto a causa di una certa insofferenza nei confronti dei contesti in cui è cresciuto ed opera. In modo non anarchico, non si ritira dal campo ma si impegna nel campo per contribuire al cambiamento. Questo tipo di lettore/lettrice, si sente perciò chiamato a partecipare ad una rivoluzione culturale del proprio modo di procedere. In modo abbastanza emblematico, intravede il maltrattamento ovunque, laddove prima vedeva conflittualità di coppia, sintomatologie ansioso-depressive o fobie scolari. Senza spaventarsi, e soprattutto senza rigettare il proprio precedente sapere, lavora ad un intenso lavoro di sintesi, sentendosi umano e più ricco, e finalmente trovando quella dimensione esistenziale in cui possono abitare etica, coinvolgimento sociale ed investimento professionale.

Non esiste una giustificazione. Perchè potresti leggerlo.

È nato “Non esiste una giustificazione”.  Un contributo per combattere la violenza domestica attraverso un coro a più voci. Nel parlarne, non nascondo un certo imbarazzo che a volte prende la scena e mette tra parentesi l’entusiasmo. Mi dico che sono fatto così. Non mi è mai piaciuto granché festeggiare i miei ‘compleanni’…

Ho sentito l’esigenza di scrivere Non esiste una giustificazione in un momento in cui ho avvertito l’intenso bisogno di dare un respiro diverso al mio lavoro di psicoterapeuta. Perché lavorare nel settore della violenza domestica significa ricontestualizzare la propria formazione clinica, apprendere nuovi strumenti e contribuire a un cambiamento sociale. Non esiste una giustificazione è sicuramente un testo tecnico e con grande umiltà e un pò di spavento mi inserisco in un dibattito scientifico forse nuovo solo in Italia. Gli operatori impegnati nel campo psicosociale possono trovare nel libro materiale di lavoro per accompagnare  l’uomo che agisce violenza domestica verso il cambiamento, imparando a riconoscerlo, a conoscere le particolarità dell’intervento a suo favore e le numerose insidie nascoste nella relazione di aiuto. La sistematizzazione teorico-operativa a cui sono giunto è iniziata nel 2009, quando il Centro Ascolto Uomini Maltrattanti di Firenze ha avviato un intenso lavoro rivolto ad uomini che agiscono violenza nelle relazioni affettive, di formazione degli operatori e di sensibilizzazione del territorio circa la necessità di prevedere anche in Italia programmi di intervento rivolti agli uomini maltrattanti che non si sostituiscano ai dispositivi giuridici ma si offrano al loro fianco come possibile alternativa ad una scelta: quella di usare la violenza per imporre regole, pretendere rispetto ed affrontare le imprevedibilità della vita. Considerare il maltrattamento come una strategia sistematica di mantenimento del potere e del controllo apre infatti la porta a numerosi interrogativi a cui cerco di fornire l’abbozzo di una risposta: cosa ha portato l’uomo ad utilizzare la violenza come modalitá facile di risoluzione dei problemi? Quanto è possibile insegnare all’uomo abilitá di vita alternative all’uso della sopraffazione? Nell’esplorare queste domande, l’aproccio eclettico a cui mi rifaccio cerca di trovare una sintesi dove abitano differenti aspetti della mia storia: la mia formazione analitica, relazionale e l’indispensabile condivisione del percorso effettuato con i soci fondatori del Centro. Ma anche: il ruolo degli eventi che hanno costruito il mio modello maschile, che è inevitabilmente entrato in crisi con la scrittura del libro per potersi trasformare e rendermi, spero, una persona migliore.

Credo però…che Non esiste una giustificazione non sia solo un testo per specialisti. Nelle sue pagine si avverte il rumore dei piatti sbattuti in cucina, il telegiornale che rimbomba all’ora di cena mentre tutti stanno zitti sperando che ‘babbo stavolta non si arrabbi’ ed il profumo acido dei fiori che Valerio offre alla sua compagna per farsi perdonare dopo l’ennesimo scoppio violento. Tutto questo ci riguarda, ci è vicino e molte delle tragedie di cui si parla nei giornali ed in televisione nascono da qui. Questo libro ci può aiutare a percepire quanto le strategie maltrattanti non siano solo un problema altrui, dal momento che i ‘lupi cattivi’ abitano nei boschi come nelle città. Ho così la presunzione di sostenere che anche chi non si occupa direttamente dei contenuti trattati troverá spunti di riflessione per comprendere quanto il maltrattamento rappresenti una scelta vincolata dall’analfabetismo affettivo di una società che strizza l’occhio in molteplici forme all’uso della violenza. Forse, questo lettore potrebbe cominciare ad osservarsi in modo diverso e, divenuto più consapevole, contribuire ad una operazione di trasformazione culturale e sociale prima che clinica: una operazione, questa, che ci coinvolge tutti se vogliamo fornire risposte efficaci al problema della violenza domestica in particolare e a quello della violenza in generale.

C’è bisogno di un coro.

Durante la lettura del libro potresti trovare risposte a queste domande:

-Perché gli uomini maltrattano le donne?

-Perché uomini fragili adottano risposte violente nelle relazioni affettive?

-Come riconoscere le modalità tipiche comunicative e relazionali dell’uomo maltrattante?

-Come accogliere l’uomo attraverso un approccio centrato sulla persona e focalizzato sulla violenza?

-Come accompagnare gli uomini in un percorso di cambiamento a seconda del loro livello di consapevolezza del problema?

-Come gestire le insidie della relazione terapeutica e le fasi critiche della presa in carico?