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Approfondimenti tematici e spunti clinici

La mancanza di spontaneità

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Provo sempre più spesso la disturbante sensazione  di dialogare con persone che attivano  la sola parte sinistra del cervello.

Tutto ciò che attiene ad uno scambio  profondo  viene relegato nei bassi fondi della comunicazione in nome dell’aziendalismo imperante della nostra vita. La netta separazione tra famiglia e professione, tra mondo dell’intimità e mondo della produttività, tra privacy e pubblico ha creato questo scisma violento che si chiama mancanza di spontaneitá. Hai presente quando dici qualcosa e l’altro dice: eh. Si. Infatti. O quando ad una cena condividi per ore i piatti ma non resta niente che evochi uno spessore emotivo. O quando gli incontri tra le persone, le riunioni di lavoro, il dialogo tra amici rimane imbalsamato nei clichè. L’istinto della convenienza, il giocare in difesa e la paura dell’esposizione generano la mancanza di spontaneità. Penso che questo impoverisca fortemente la vita di ciascuno, sia di chi emette, sia di chi riceve. Penso che negli incroci relazionali, ciò che è tuo prima o poi transita anche in ciò che è mio e lo influenzi e che la mancanza di spontaneitá ci stia allontanando un pò tutti da tutti. Non dico certo che si dovrebbe essere sempre aperti al flusso emozionale tra le persone; ritengo, però, che dovremmo avere meno paura di sfatare il mito che  le emozioni siano un segno di fragilità e debbano essere compensate dal bisogno di sfoggiare qualche forma di  “sapere x”, utilizzato come protuberanza fallica per coprire le proprie vergogne.

L’assenza come evidenza

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L’assenza è un’evidenza ed ogni giorno la confrontiamo come cliente scomoda della nostra umanità. L’assenza come causa motiva il desiderio e la nostra ricerca interiore. Ma anche la persecuzione e il delitto. L’assenza come conseguenza è l’esito ineliminabile  delle nostre scelte e delle inevitabili perdite,  che ci fanno comunque sentire individui unici.

Viviamo sospesi nel tentativo di colmarla, per quanto nessun oggetto fará pari, e lascerà sempre un fondo di inquietudine. La questione centrale, per ciascun uomo e per ciascuna donna, penso che stia nel trovare forme evolute di reazione alla specifica assenza che di volta in volta affronta.

Le risposte possibili parlano infatti molte diverse lingue.  Quella dell’arte, della poesia, della musica e della letteratura. Quella del riposo e della meditazione. Quella dell’hobby e dello svago creativo. Ma anche quella della violenza, dell’uso indiscriminato del potere e della prevaricazione.

Quando le risorse latitano, quando i destini sono vincolati, quando ci appiattiamo sulla soddisfazione del bisogno, una deriva dell’assenza – di una conferma, di una consolazione, di una aspettativa – è rappresentata dalla ricerca rabbiosa dell’autoaffermazione. L’assenza perde la sua funzione di motore e diventa fantasma persecutorio che miete ogni limite, deserto depressivo in cui la fame dell’altro sopravanza la ricerca di sé.

Qualcosa che si approssima al sogno

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Ci sono esperienze nella vita che sono liminali al sogno. Per quel poco che ho capito su come nascono, credo che derivino da forti impatti con cose della natura. L’esito è quello di sentirsi scossi da un’energia che fa coabitare insieme il piacere con la sensazione della paura; la sospensione, nel concedersi se stare o meno in bilico tra gioco e realtà o ritornare frettolosamente in uno dei flussi in cui scorre standardizzata la vita.

La casistica è molteplice e potrei raccontare di numerosi istanti in cui questo momento magico si presenta.  Negli ultimi giorni, ad esempio, l’ho provato durante un’immersione in un’acqua poco profonda, seguendo un piccolo branco di pesci che non sembravano spaventati da me. O durante una corsa in cui l’ecosistema composto dai miei muscoli e l’aria intorno ha creato qualcosa di molto simile alla perfezione. O quando, nel dormiveglia, ho fantasticato un pensiero che poi, durante una sessione di lavoro, è stato puntualmente citato da un cliente.

Il momento magico capita anche quando tuo figlio cerca naturalmente la mano, proprio mentre avresti richiesto la sua presenza. Quando la temperatura si fa improvvisamente ideale. Quando casualmente trovi una posizione comodissima in cui vorresti stare all’infinito. Quando incontri lo sguardo di una mucca e ti sembra di aver capito tutto. Quando segui il profilo di un monte e ti viene in mente il concetto di pienezza. O quando, pochi secondi dopo il tuo intuito, un indizio si trasforma in prova.

Tendenzialmente, sono momenti privati o provati in un microclima che predispone al sogno; in linea preferenziale, dunque, al mare, in campagna, tra gli animali, durante una terapia; raramente, capita di intercettarli anche con persone reali che si concedono di stare immerse, quanto basta, nelle trame della vita fuori dal ciclo.

E’ perturbante la naturalezza con cui si presentano. Sono in grado, con una dolcezza decisa, di rendere obliqua ogni forma di equilibrio, lasciando aperta una domanda pre-verbale ma non viscerale; ancora troppo involuta per chiamarla simbolo, giá abbastanza evoluta per non chiamarla bisogno.

Penso che il nesso relazionale che connette istanti così diversi e che ci consente di coglierli sia l’assenza di giudizio, una moderata quota di inquietudine, uno sguardo stuporoso che assomiglia a quello di un bambino ed il bisogno di sentirsi vivo.

Si tratta infatti di esperienze a perdere, che non costano niente e che non possono essere fotografate (per quanto ci tenti) o postate su facebook  (per quanto lo faccia).

La loro eclatanza, sta tutta nella loro non straordinarietá: sono battiti di una bellezza inconfondibile quanto quotidiana, distribuita sul crinale che separa il sonno dall’eccitazione sensoriale.

In loro attesa, lo stato psichico a cui abbandonarsi è quello normalmente triste, perché nel fervore maniacale del dire, fare e pensare, non c’è spazio per questo brandello di moderata felicità.

Tra gaudenti e burocrati meglio non mettere il dito

Tra gaudenti e burocrati meglio non mettere il dito.

La babilonia multilingue dei gaudenti si nutre della sovversione delle regole della natura, nell’aggiramento sistematico dei divieti e nella mortificazione dei diritti. Non c’è storia. Non esiste rimozione o sintomo. Tutto è presente eterno e “pieno sempre”. Ogni mattina si ripete la trama dell’identico ed alla sera i membri del clan si lustrano dei loro umori senza mai incontrarsi, scivolandosi addosso.  Intorno allo specchio dell’autoreferenzialitá, il capo-orda ricorda:

‘Voi che partecipate al mio banchetto, onorate la mia immagine sfiorandovi appena’.

Nella terra dei burocrati, vige invece la regola della Legge senza desiderio. Il dettaglio della carta scritta, preserva dall’espressione della soggettività. L’orizzonte del significato diventa optional e sinonimo di stravaganza. Alla fiera di paese, all’occorrenza, si permette di comprare confezioni di empatia 3×2 attraverso il telemarketing della pulsione. A patto, però, che ogni messaggio di amore venga vidimato, come capo-orda recita:

‘Voi che vi attenete a ciò che è scritto, non divergete se non volete diventare rabdomanti delle procedure perdute’.

I gaudenti gozzovigliano aprofittando della assenza normativa di un Padre. Ingurgitano-evacquano esperienze – emotive, sessuali, professionali – senza temporalizzare gli eventi. Il loro sistematico rigonfiamento miete il nostro spazio; ed i figli diventano così padri di loro stessi, in un sardonico rifiuto delle gerarchie simboliche. Una violenza atroce, che  fa sentire la carne tritata nel far west dei senza Legge.

I burocrati spendono ore dei loro giorni confermandosi nell’alessitimia dei sentimenti, specializzandosi, piuttosto, nella liofilizzazione dell’altro.  Non rispondono proprio. Trapassano con lo sguardo diafano. Annullano la forza d’urto dei sentimenti. Evaporano come ombre per materializzarsi con un sorriso d’assenza, che ci tiene ben lontani/e dalla possibilità di stabilire un contatto. E quando non scorrono amore e speranza, veniamo abitati dalla loro violenza sottile, che non ci fa sentire mai riconosciuti.

Nelle zone di confine tra le due terre, esistono poi i meticci.

Forse che molti burocrati non nascondano il gene dei gaudenti, quando la rigidità diventa l’oggetto del loro godimento perverso, che batte il ritmo dell’annullamento dei significati? Il godimento dei burocrati sta nella burocrazia stessa e nell’alienazione che essa crea nello spazio tra me e te.

Come a fargli eco, molti gaudenti costruiscono regole incestuali, appannaggio della loro visione del mondo; sopravvivono generando codicilli, portatori di matrici parziali di senso e funzionali a creare un “noi-contro-voi”. La burocrazia dei gaudenti sta nella fissazione del godimento in quanto comma esistenziale.

Tra gaudenti e burocrati meglio non mettere il dito.

Il gerundio esistenziale

Nell’attimo del gerundio esistenziale, mi tengo vivo come posso, attraverso esperienze che partono dal basso di me. Perciò, sollecito i sensi attraverso molteplici declinazioni del gerundio esistenziale, che evoca l’idea dello stare in movimento. L’attimo, potrebbe declinarsi in questo elenco di stati misti che volutamente lascio tali:

-giocando con i miei figli senza pretendere troppo da me;

-portando Lola al campo addestramento;

-comprando cibi buoni in mercati rionali;

-entusiasmandomi nel mio lavoro quando incontro un altro;

-sperando di tornare presto a pesca;

-accettando come naturali i miei sentimenti di invidia e gelosia;

-accogliendo la tristezza quando arriva;

-ascoltando musica post-punk;

-portando in giro con orgoglio il mio libro;

-associando e studiando;

-tifando come un bambino;

– riconoscendo le mie paure;

-assecondando senza vergogna il mio impulso alla scrittura;

-pianificando sessioni di attività sportiva sufficientemente buone;

-romanzando le mie sedute;

rimanendo stupito dalla potenza di alcuni incontri;

vivendo le pause in modo non depressivo;

rimanendo stupito dall’annacquamento di certe relazioni;

-chiedendomi cosa possa provare l’altro quando dico o faccio qualcosa;

-componendo canzoni che troverò il coraggio di far ascoltare;

-regredendo nelle parentesi di vacanza o nelle cene tra amici;

-schematizzando, leggendo, catalogando, ordinando;

fantasticando per poi rientrare;

-integrando stanchezza e forza di volontà;

-riconoscendo l’autorevolezza di chi ne sa più di me (continua…);

-assumendo nei suoi confronti uno stato di dipendenza evolutiva;

-curando la bibliografia di ciò che scrivo;

-dedicandomi alla cucina creativa;

-passeggiando nella mia città a naso all’insù;

 -riflettendo quando viene e quanto basta sui sogni senza angustiarmi se non li ricordo;

I frequentatori psichici di sé tramite te: brevi note sull’uso psicologico dell’altro

Quelli che chiamo i frequentatori psichici di sé tramite te vanno alla ricerca di una stimolazione etero. Non fraintendere. Etero nel senso che sono speciali nell’usare una parte preziosa dell’altro come se fosse loro, in un complesso gioco di riflessi. Narcisisti, manipolatori o perversi. Borderline, immaturi o vampiri. Non mi interessa l’etichetta. Parlo qui di rapporti, non solo di tipo professionale. I frequentatori sono reduci da relazioni primarie così così. Non hanno necessariamente sofferto le pene dell’inferno, ma in qualche modo hanno fatto esperienza ripetuta di una povertá dal punto di vista affettivo. Incapaci di vitalizzarsi in modo autonomo, i frequentatori si ingegnano nel cercare antidepressivi umani, che catturano attraverso la ragnatela delle loro abilità relazionali. Inizialmente ci stupiscono. Sanno essere affabili, generosi, premurosi, responsabili e attenti. Nel tempo, potremmo riuscire ad intuire qual’è il loro vero gioco nascosto: frequentarsi tramite te.

ZOOM IN

Succhiano la nostra vitalità per evitare di stare. Sulla soglia dello stare, hanno consumato l’attesa per qualcosa che sarebbe dovuto arrivare e che non è purtroppo arrivato: l’eco di una voce amichevole, del conforto o del riconoscimento.

Congelati tra rabbie inesplose e domande di amore inevase, sono dunque cresciuti muti, incapaci di dare voce alla mancanza, perché un possibile antidoto alla depressione d’amore è pur sempre il coraggio di farne richiesta esplicita, comunque siano andate le cose.

Sulla soglia dello stare fa freddo e ci si sente soli anche se in una moltitudine. Affaticati dalla sola idea di chiedere, spaventati dalla sola ipotesi di una nuova attesa, hanno così cominciato a dar forma all’anti-stare.

L’ANTI-STARE

Frequentano ogni tipo di città, vagando alla ricerca di cibo. Ogni cosa che pulsa; ogni slancio, idea, provocazione, entusiasmo, genuinità è pane per i loro denti.

Viaggiano da un’attività all’altra. L’imperativo è non depositarsi mai. Non fare mai resto. Non mollare la presa sull’osso della vita, ricercandone continuamente una dimensione eccitata.

Specializzatisi nell’accelerazione delle tappe – cognitive, sessuali, esistenziali – anti-stanno eludendo i conti con le delusioni ricevute e con l’andirivieni dell’esperienza.

Si travestono così di cornici simboliche fittizie, la cui crosta nasconde l’odore che fa. A ben vedere, non sanno né amare né chiedere, né prendere o dare. Piuttosto ingurgitano storia, senza conservarne alcuna memoria. Nelle zone grigie della riflessione, infatti, diventano depressi, schizzando via per ritornare su in modo artificioso, nel far west dei sentimenti.

IL FAR WEST DEI SENTIMENTI

L’incipit del rapporto è border ed all’insegna della lusinga, ma la parata idealizzante a cui ci sottopongono ha ben altre finalità ed è un’astuta operazione di segno contrario.

Usano l’arma bianca della seduzione attraverso la quale ci catturano. Ci sentiamo improvvisamente speciali. Zacchete. Magnificandoci, coccolano in realtà il loro sembiante – che siamo noi – per come gli altri avrebbero dovuto fare e per come avrebbero voluto gli altri facessero.

Veniamo inizialmente abbagliati dalle piume colorate della loro livrea, che si rivela un oleogramma artificioso dei nostri colori. Inizia il banchetto. In questa raffinata operazione, dislocano, con puro istinto predatorio, il loro bisogno di amore nella finzione di amarci, creando coppie “io-tu” eccitate.

Così, si appiccicano addosso i nostri gusti e le nostre abitudini. Parlano il nostro linguaggio. Aderiscono alle nostre idee. Combattono per le stesse battaglie. Vivono con la nostra passione. Raccattano frammenti di identità posticci per incollare in modo compulsivo i relitti di un sé non coeso.

In una sorta di partenogenesi, simulano l’altro mai avuto mentre ci idealizzano e, nel vederci appagati dai loro omaggi, si identificano con la parte felice che non sono mai stati.

Inconsapevoli dell’atto cannibalico, diventiamo così gli attori di un nuovo capitolo del loro romanzo. Nella nostra versione, costruiamo finalmente una relazione entusiasmante con un’altra persona. Nella versione dei frequentatori, si produce un surplus di proteine emotive per scappare un giorno in più dallo stare.

LA NOSTRA APPARENTE FELICITA’

Spesso, non ci accorgiamo di questa doppia scrittura. Nella fase mediana del rapporto, infatti, è caratteristica la patina della condivisione di esperienze all’insegna della reciprocità, che ci illude di stabilire uno scambio arricchente. Ci sentiamo intimi, fusi, la coppia più bella che c’è, solo perché un camaleonte ci riflette nel nostro profilo migliore.

E generano la nostra apparente felicità. Ci colgono impreparati nel segno della vanità. Camuffano la rapina con generosa elemosina di attenzioni. Purtroppo, le loro effusioni sono solo aromi per condirci la carne, degustata a piccoli bocconi.

SPIE

Appare in noi, spesso, un groppo isterico, somatico, nodale. Alla testa, alla gola, o alla bocca dello stomaco. Perché, quando la mente è fottuta, è il nostro corpo che parla, si divincola e ci mette in allerta.

Impara ad ascoltare le note dissonanti che cominci a cogliere, ma che non vuoi ascoltare. Può darsi che il benessere che provi in loro presenza diventi impercettibilmente ansioso e liminale ad uno stato di insofferenza.

Vorresti vederli ma anche no. Vorresti sentirli ma anche no. Vorresti a volte non vederli né sentirli proprio. Confuso da questa  ambivalenza, diventi oggetto della tua critica: come è possibile che di fronte a tante carinerie ti ti diri indietro? Come mai anche stavolta ti comporti in modo così irragionevole e malevolo?

Tracce del rimprovero transpsichico che avverrá, subito dopo il crack.

 CRACK

Poi avviene il crack. Si scopre di essere stati usati quando, per qualche evento, ci smarchiamo dal ruolo di preda. Può capitare per qualsiasi impegno di vita, o evento, che detti un nuovo ritmo al rapporto, imponendogli inevitabilmente il nostro tempo.

Allora, i frequentatori psichici di sé attraverso te possono arrabbiarsi. Quei bei volti rotondi, diventano ispidi ed ossuti. Esplode la condanna che ci fa sentire traditori. Ci rimproverano proprio. Tiranneggiano la relazione e ci fanno provare paura per i nostri sbagli.

In altri casi, non abbaiano. La freddezza del cobra è proporzionale al calore con cui ci aveva osannati durante il pasto immateriale. Temiamo ricatti e morsi improvvisi, vivendo in una atmosfera di crescente minaccia.

SENZA ARTO

Quando ci svegliamo, siamo nella sensazione di essere senza qualche arto psichico. Il bluff emotivo che si prova, e la tristezza conseguente che genera, è l’ultima allocazione di sé che i frequentatori ci lasciano dopo averci posseduti.

La melanconia irrompe come qualcosa di traumatico: è un pezzo di realtà che piomba come se fosse nostra, ma solo come se, lasciandoci il retrogusto tossico di una “cosa installata” che dobbiamo personalmente smaltire.

Dopo aver prestato la nostra anima, offriamo così al frequentatore, già altrove, anche la possibilità di alienare il dolore mentale che non ha provato, quando nella sua vita le cose sono andate storte.

Campanelli di allarme -Sul frequentatore

La visione di te come esclusivamente buono/a

Un’inspiegabile ‘fretta’ che vuol dare al rapporto

Il fervore con cui si rialza dopo una delusione

Una giovialità indifferenziata che appiattisce la soggettività dei suoi incontri con il mondo

Campanelli di allarme -Su di te

La convinzione iniziale che hai a che fare con una “persona bella”

Un’immediata ricarica delle tue batterie

La progressiva sensazione di ingombro e fatica

Sentirsi senza un pezzo quando sei stato/a vero/a

Sul desiderio di un flusso

desiderioNon c’è che desiderio e socialitá, nient’altro”.

Deleuze e Guattari 

L’Anti-edipo. Capitalismo e schizofrenia.

Ho riconcentrato l’attenzione su un libro la cui lettura non può che essere sintomatica come è sintomatica la conseguente scritturaflusso che in me ha ispirato. La macchina desiderante produce il reale e da qui dovremmo ripartire in una sorta di recupero del messaggio dell’Anti-edipo nell’era post atomica della bomba chiamata “crisi”.

La clinica delle psicosi mi insegna quanto il pensiero “schizo” sia intriso della produzione del flusso in cui cerchiamo spesso di inscrivere una categoria – nosologica, psichiatrica o interpretativa – mentre la clinica delle nevrosi si imbatte in quel che l’eccesso di struttura produce nel soggetto, ovvero il suo schiacciamento sotto l’egida della repressione.

Sulle opportunità del flusso deleuziano, non da intendersi come invito all’uccisione di ogni fardello simbolico in nome di una pulsione cieca ma come liberazione del desiderio dalle istanze sociali che lo hanno ingabbiato, potrei aver molto da dire.


 Mi connetto al flusso. Incontro centinaia di persone ed ascolto ovunque un brusio di sottofondo. Le famiglie, i genitori, i fratelli, le sorelle, i gruppi classe, i gruppi di lavoro, le coppie, i single, gli italiani, gli stranieri, tutti sarebbero aperti al flusso finalizzato non più ad acciuffare l’oggetto miracolistico che colmi la mancanza; piuttosto, dichiarerebbero più o meno sommessamente la disponibilità di donare loro stessi al flusso in sé, esauritasi la speranza che qualsiasi forma di Struttura possa fornire senso alle prospettive immaginarie, una volta preso atto che la mancanza risiede nel concetto stesso di struttura.

Quel che chiamo incontri causali, non fortuiti ma neanche articolati nel “discorso del Padrone”, sono esempio del flusso appunto “macchinico”, volto a produrre nel reale la dimensione animale della vita, dove animale significa abitato dalla pulsione a vivere, senza attribuire al concetto di animalità alcuna valenza religiosa o zoologica.

Nel corso delle presentazioni di Non esiste una giustificazione, ho avuto spesso modo di sentire il flusso, osservando la comunità coinvolgersi in una produzione appunto “animale”, che si è tradotta in una riflessione appassionata sullo scheletro della violenza, sui tentacoli del potere e sul potere accecante dello sguardo dell’altro.

Ho scoperto che uomini e donne, professionisti e non, hanno ciascuno/a un padrone cui chiedere di render conto e mi piace pensare al flusso di idee emerso come amplificatore dell’urgenza di un’azione trasformativa all’insegna del desiderio di produzione di sé oltre le maglie dell’Altro.

Il desiderio ingenuo di incontrarsi per parlare, avviare nuove connessioni relazionali sull’impronta della sorpresa, dello stupore e dell’incanto, comunicare per uscire dal fantasma narcisistico della solitudine, avviare un’azione di cambiamento sociale oltre gli spartiti di concerti già suonati e gli steccati di campi istituzionali prestabiliti, questo ho inteso per flusso.

Movimenti di pura economia pulsionale, sospesi tra sogno e realtà, tra percezione del bisogno e formulazione di una domanda, veicolati dal solo impulso aggregativo tra pari umani.

Rileggendo l’Anti-edipo, ho allora pensato che l’opportunità, in tutta questa confusione, potrebbe (o sarebbe potuta) consistere nel co-produrre un flusso molecolare di azione e passione senza appartenenza alcuna alle categorie molari che scienza, politica e religione confezionano quotidianamente al banchetto esperienziale della vita per poterci chiamare uomini.


 Purtroppo, la paccottiglia dei saperi, la comparsa di nuovi sciamani, l’ipersensibilità con cui ciascuna funzione difende il proprio territorio – politico, professionale, amicale, amoroso, hobbystico – alimentano ovunque, all’interno del flusso, la speranza nelle “credenze”, concime straordinario per sostenere l’illusione che il proprio orticello culturale possa crescere lontano dalle nubi tossiche della radioattività globale.

Ecco che la macchina capitalistica incombe, come ci ricordano Deleuze e Guattari, sulla potenza eversiva del desiderio, deterritorializzandolo sotto forma di flussi decodificati appena il desiderio si presenta nella sua forza dirompente e primitiva.

Flusso credenza, flusso lavoro, flusso appartenenza, flusso noi si, flusso voi no. Flusso distanza, flusso vicinanza, flusso non più, flusso non ancora, flusso non basta. Flusso sono contro, flusso sei fuori, flusso parliamone, flusso ci devo riflettere.

Qui nasce la struttura sottoforma di credo, che ripiega la potenza macchinica del desiderio in una miriade di organi da potenziare, lubrificare, oliare, lucidare, far scorrazzare, revisionare e poi sostituire, magari pagando per la loro demolizione attraverso un contrito processo di lutto. Forse la violenza rappresenta la benzina invisibile con cui ciascuno di noi guida la propria macchinuccia, ben distribuita negli autogrill ad ogni punto di ristoro e di codificazione sociale dei flussi.


Quando viene offerta  un tanto al chilo nel rione della logica mercantile, la fluidità del “corpo senza organi” di deleuziana memoria

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usciresentiremusicainformarsiviaggiare

si moltipica, si affetta, si taglia, si svende in una pletora di strumenti cristallizzati attraverso i quali ciascuno potrà esercitare il  suo diritto di espressione, il sacrosanto ritorno ad uno stato di benessere, la difesa di un’opinione o la maturata  consapevolezza di avere un problema.

Installatisi nel socius, costumi barattabili come moduli accrescono fallicamente l’esperienza o colmano magicamente una mancanza ad essere. Ce ne è per tutti i gusti e di ogni tipo, in ogni campo del sapere e dell’ignoranza: siamo diventati  l’epoca delle pillole dei miracoli. Tu fai questo miracolo a me, che io faccio questo miracolo a te.


Da opportunità di flusso, le categorie di vita allora si inturgidiscono: sono ora organi del corpo spogliato dal desiderio, veri stendardi del Potere.

Esempi. Se mi formo, allora mi laureo. Se mi fermo, allora no. Se allora no, allora bo. Se mi laureo, allora viaggio premio. Se viaggio premio, allora mi diverto. Se mi diverto, allora sono felice. Se sono felice, allora lavoro meglio. Se lavoro meglio, allora guadagno. Se guadagno, allora mi sposo, oppure mi sposo lo stesso, che il lavoro tanto non si trova.

Luoghi di culto della privacy e della presunzione di emancipazione, vettori ordinanti di traiettorie di vita altrimenti allo sbando, sacre dimore delle “legittime aspirazioni di crescita personale”, queste matrici del “se allora” strutturano una superficie di trascrizione e al contempo di tradimento del desiderio attraverso un discorso tanto amichevole, quanto capace, tempo zero, di congelare il battito della pulsione per la durata di una vita intera.

Flusso liberamente ispirato dalla rilettura di: 

Deleuze G.  Guattari F., L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Tr. it. Einaudi, Torino 1975.

Fenomenologia della saccenza cognitiva

La saccenza cognitiva, dissociata dagli aspetti affettivi, è una fenomenologia ricorrente di difesa che incontro spesso e dalla quale, a volte, io stesso non sono esente.

Il potenziamento cognitivo della mente garantisce un rigonfiamento fallico, sotto forma di turgida produzione di opinioni e ragionamenti che liofilizzano la portata emotiva del pensiero, percepita come pericolosa e antiestetica, in nome della neutralità scientifica.
 
Ciò riguarda il laureato, come lo studente in erba o l’uomo comune, purché in possesso di qualche forma di sapere da esibire:
 
-come si resetta un S3
-come si affronta un disturbo dell’apprendimento
-come si risolvono i problemi dell’economia globale
-come si conquista una ragazza
-come si cucinano i carciofi alla romana
-come si educa un figlio
-come si mette in campo la fiorentina stasera
-come si tratta un paziente borderline
 
Lo sguardo vacuo, la postura tirata, il linguaggio forbito – quale forse è il mio nel post stesso ed altrove – riducono la persona ad un mero abbecedario degli eventi e delle istruzioni.
 
Spesso ho l’impressione che le persone si parlino attraverso le loro agende od il quotidiano di turno appena letto. La paura di un reale contatto viene così tenuta a bada dalla fenomenologia della saccenza, che di volta in volta pare funzionale a:
 
raccattare il sapere piuttosto che conquistarlo faticando
-saltare le tappe evolutive
-addormentare la dimensione pulsionale dell’incontro con l’altro
-acquisire facile consenso
-nascondere il proprio idioma attraverso una pletora di nozioni impersonali
-congelare qualsiasi forma di partecipazione attiva in nome del diritto alla privacy
 
Quando provo noia o voglia di andarmene o di finire presto, sento di essere capitato nella terra della saccenza cognitiva. Divento piccolo, inibito e sterile, e non più in grado di fare il buffone, come ero solito da adolescente, per riscaldare il clima che mi raffreddava e mi rendeva inquieto.
 
Che dare prova che lo scambio emozionale non passi attraverso strane pratiche new age, ma in una matrice relazionale di incontri profondi fatti da persone e non da rotocalchi, pare non serva. Ancorato ad una storia degli eventi, a momenti di stasi, all’altalena oscillante degli umori, alla passione della riconquista, alla noia della pausa, all’insoddisfazione di non sentirsi capiti, alla gioia di una strada ritrovata, penso di poter dire che buona parte del mio impegno esistenziale sta nel fatto di cercare strategie alternative alla passività, alla fuga o alla sindrome del saltimbanco, quando incontro un saccente cognitivo.

Atto etico

Arriva il momento in cui chiedere di render conto diventa un atto etico. In quel preciso istante, ogni sopruso ed ogni arroganza, così come ogni discriminazione ed ogni dimenticanza, non spaventeranno più. L’unico mezzo è mantenersi lucidi e vivi, trovare tane di sopravvivenza oltre il grande mare dell’ignoranza. A volte “la crisi” diventa una scusa per non partire accettando il rischio di trovarsi “la cura” senza che questa ci venga servita dai grandi sapienti. Leggere non basta. Deve trasformarsi in scrivere e nel coraggio di denunciare tutto ciò che è osceno perché rientri sotto i riflettori della scena ed evapori come neve al sole. È osceno paralizzarsi come giovane oggi. È osceno assopirsi dietro al proprio cantuccio. È osceno non vedo non sento non parlo. È osceno provare compassione fine a se stessa senza impegno. È osceno non sentire l’irrefrenabile desiderio di dar forma a un movimento, ad una nuova onda, a nuovi riti -di passaggio, di confronto, di scontro – per riscaldarsi e accendersi in un’epoca di erosione del senso e dei valori. È osceno, infine, sentirsi fuori dalla scena quando invece inconsapevoli si recita il ruolo di protagonisti. Ci vogliono protagonisti-senza-scena. Riconquistiamocela.

Detentàcolàti

I Tentacoli parlano delle mille trappole del potere. Il potere acceca, miete, distrugge. Come un virus annacqua lo sguardo e disumanizza chi lo agisce. Il potere accaparra i sentimenti e lascia storditi, basiti, esterrefatti. Come un morto vivente, il potere rinizia ogni giorno identico a se stesso, insensibile agli strali che gli lanci, con i suoi rituali scolpiti nella roccia. Esiste un potere forte, sparato con i cannoni e con le bombe. Ed uno strisciante, travestito magari da rispetto e comprensione. Un potere che viaggia con il sorriso e frasi di sorniona compiacenza. Quando annuso il potere a volte ne rimango tentacolarizzato, desiderando essere dall’altra parte della barricata: dove si impone e si decide se esisti oppure no. Ma penso che c’è forse un’alternativa all’identificazione con l’aggressore che è, semplicemente, – si fa per dire…- permettersi di esistere. Si percepisce di esistere quando ci si sente in grado di fare, agire o pensare per quello che si è e non per come dovremmo o potremmo essere. O per come l’altro vorrebbe che fossimo. Allora ci de-zombifichiamo e riannusiamo odori e rigustiamo sapori, ricordandoci che cosa è la vita. A volte dovremo piegare la testa, altre alzarla con orgoglio. In ogni caso, lo faremo da vivi. Tutto questo diventerà una stimolante sfida, che abita nella zona grigia tra i tentacoli e la tua pelle.