Cambiare l’Italia con un cucciolo di cinghiale

Da stamani cambiare l’Italia è diventato possibile. Cambiare l’ignoranza si può. Mio figlio, in un’intervista a La sette, di fronte alla domanda ‘Cosa chiederesti al Presidente del Consiglio’ ha risposto: un cucciolo di cinghiale.

Mio figlio lo vuole cucciolo: già forte ma ancora da allattare. Un piccolo maialotto selvatico come quelli visti numerosi in Corsica quest’estate, che ha insistito perchè prendessi.

D’altronde abbiamo adottato cani, gatti, piccioni, rondoni, criceti. Perchè no. Un animale è un animale.

Gabriele lo vorrebbe portare a spasso, in un mondo forse un pò strano, dove al guinzaglio giri con un mangiaghiande.  Dovrei allora spiegargli che i mangaghiande stanno bene in natura. E che certe regole vanno rispettate.

Lui risponde: ma tante cose sono strane in questo mondo. Tante regole non sono rispettate. E allora dovremmo parlare delle guerre, delle  ingiustizie e della violenza. Della disoccupazione, del menefreghismo e dell’isolamento sociale.

Insomma, parlare del desiderio di crescere un cucciolo di cinghiale in un appartamento apre la mente, ma purtroppo non credo che lo faremo. Resta però la consolazione di spiegare a Gabriele che non è possibile crescere in un appartamento un cinghiale.

E il fatto che di questo sono convinti un po’ tutti – genitori, animalisti, intervistatori, politici, etc.  – mi fa sentire un uomo che fa parte di una collettività e cittadino di un’Italia migliore.

Il mare sarebbe stato tutto per noi

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Ho preso un aperitivo con Davide, mio figlio, anni otto. Lui ha preso una cedrata ed io un’acqua tonica. Eravamo vicino  al mare e mi sono sentito orgoglioso di tirare fuori 2.50 euro.

L’abbiamo sorseggiato lentamente, come vecchi amici al bar. Lui mi ha spiegato perchè ama quel gusto dolce amaro del cedro, ed io perchè da un pò di tempo amo il gusto secco e frizzante dell’acqua tonica.

Quella conversazione mi faceva sentire completo ed appagato, e ci siamo concessi un pò di tempo per succhiare con la cannuccia il residuo di due gusti diversi.

Poi ci siamo abbracciati, ed io gli ho raccontato che da piccolo prendevo la spuma bionda. Mi ha guardato con aria saccente, facendomi sentire un pò vecchio, perchè la bionda non c’è più da tutte le parti.

Abbiamo poi parlato di fiorentina, del suo avvio di campionato stentato e dell’imminente inizio della scuola. Quel punto valeva la pena di approfondirlo e Davide mi ha detto di essere contento di rivedere i suoi amici.

Era bello per me starci, in quel momento di incontro tra piccoli uomini. Gli ho chiesto se aveva voglia di altro e lui mi ha risposto sono a posto.

Allora mano nella mano abbiamo ripreso a camminare, perchè la cena nel frattempo era pronta.

Abbiamo guardato un pò ironici dei pescatori senza pesci in saccoccia, dicendoci, in silenzio, che se avessimo deciso di metterci a pescare insieme, il mare quella sera sarebbe stato tutto per noi.

L’essenziale è visibile agli occhi

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Oggi in una giornata da mare a metà ho riletto un pò di Principe. Mi interrogo sulla formula ‘l’essenziale è invisibile agli occhi’ la cui intensità poetica e letteraria non discuto.

Piuttosto, vorrei sottolineare le conseguenze che ‘agli occhi’ dei più quella frase sottende, e che ci hanno portato a supporre che ovunque ci sia un significato nascosto da esplorare e far emergere. O che l’alchimia della felicità si nasconda in qualche segreto elisir. O che i nostri comportamenti siano sempre e comunque guidati da una tensione inconscia da interpretare.

Ma cosa è essenziale, al giorno d’oggi? Guardo un mare in tempesta o dei bambini che crescono. Mi perdo nel volo metodico e coordinato di un gabbiano. Scrivo un articolo che secondo me funziona. Mangio un buon piatto fatto di cibi genuini. Prendo un caffè con un amico e mi sento meno solo. Leggo un bel libro che mi apre una prospettiva. Condivido con la mia compagna tutto ciò che può esserlo in una relazione. Alimento un hobby nel tempo perso di cui conosco solo io il meccanismo. Immagino un lavoro sicuro e ben retribuito dove mi sento realizzato ed attivo.

Allora, io penso che l’essenziale sia ben visibile agli occhi eccome. Una vita piena e soddisfacente che restituisce dignità a chi la vive è fatta di cose molto ben visibili e per niente nascoste nei bassifondi dei significati da far emergere.

Penso inoltre che che l’infelicità di molti sia più facilmente comprensibile se scendiamo tutti sulla terra dalla luna, guardiamo come la terra è fatta e non quanto è distante da come dovrebbe essere.

I sintomi dei chilometri

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Ci sono cose che non hanno significato, se no non sarebbero cose. I chilometri, ad esempio, hanno un puro spessore cosale per quanto non siano un oggetto.

Si spalmano sul costo della benzina che ci vuole, su quanto tempo ci hai messo, su quanto male fanno i crampi che generano, su quanta batteria dell’ipod hai consumato. Quante persone hai portato, quanto qualcosa. I chilometri si nutrono del tuo quanto. Sono veri capitalisti in incognito.

Certe cose sanno essere democratiche, anche. Per esempio, i chilometri. Prete o brigante, marito od amante, professionista o lassista. I chilometri non ci chiedono la carta di identitá. Per loro siamo tutti uomini e donne senza qualitá, come diceva Musil, il che non è poi così male.

Ci sono cose che non hanno memoria. I chilometri, ad esempio, che non si ricorderanno mai. Tu li temi o li ami. Li eviti o li aspetti. Li ricordi e ci ricami sopra storie. Buoni o cattivi. Facili o difficili. Per lavoro o lungo il mare o lungo la montagna. Per loro, non sei un qualcuno. Non sei un oggi o un allora.  Casomai, un quanto all’ora. 12, 52, 76, 98, 125. Occhio alla lancetta, che individuare il pericolo sta solo a te.

Ci sono cose che non hanno desiderio. I chilometri, ad esempio. Autonomi. Narcisisti patologici. Senza reazioni emotive. Hanno il cuore di pietra e le vene laminate d’asfalto. Vampiri della nostra energia. Non ti vogliono ma ti accolgono, come locande aperte e un pò sciatte che ho incontrato in certe periferie, senza portiere a chiedere niente, con il solo pass per le carte di credito, un cartello con sopra scritto quanto costa dormire, un cancellino che si apre e dice: thank you.

Ci sono cose a cui noi siamo indifferenti. Per esempio, i chilometri. Bianchi o neri o gialli. Al nord o al sud del mondo. I chilometri non sono mappa ma territorio. Se ne fregano delle discese e delle risalite. Dei boschi e delle riviere. Dei confini e dei lignaggi. Dei linguaggi e delle appartenenze. Dei linciaggi e delle sentenze. Del trucco e delle apparenze.  I chilometri sono i veri compagni metafisici del viaggio e non fanno differenze: le code sono per tutti.

Ci sono cose che mi piacerebbe se potessero parlare. I chilometri, ad esempio. Che ci vedono sorridere o arrossire. Sbirciare il tramonto o dove sei. Fare di corsa per arrivarci, alle sei. Prendere multe. Urlare cantare sbraitare. Piangere amare e odiare. Mangiarsi le unghie. Strofinarsi il collo. Massaggiarsi la barba. Guardarsi e dirsi ci siamo.

Come cechi vojeur, i chilometri ci osservano con i nostri occhi. Ammasso che pulsa emozioni. Archetipi dei dinosauri, di nostro zio e dei suoi antenati. Dei convogli e delle carrozze. Di esili e conquiste.

Calcolo minuzioso dell’ossessivo. Vincolo del fobico. Porto di mare per chi cerca pericoli. Ancora per chi fugge da qualcuno o qualcosa.

Ma anche il mare quando lo vedi. E quell’improvvisa ondata di fresco, che siamo più in alto. La neve che prima non c’era: ah già, che da noi la neve non casca: siamo in montagna.

La pioggerellina che bagna e dici finalmente il cristallo lo lavo. Un lago che ti chiedi ci saranno li i pesci. Un autista che ti affianca e lo senti giá amico. Un altro, non sai perchè lo chiami invece nemico.

Quanti ne abbiamo fatti secondo il nostro  contatore interno? Quanti ne ha fatti l’intera umanitá? Giuro. Darei non so cosa per saperlo, che ad ogni giro e ad ogni corsa, esiste un numero esatto.

I chilometri non hanno religione o principio morale. Sono puro materiale immateriale. Cani, gatti, odore, sudore, dolore. Pneumatici sgonfi, va be controllerò. Una spia che si accende, un pensiero che ti tormenta: e se la macchina d’improvviso esplode?

Il monito della riserva. Un piccolo bruciore ogni volta che paghi. I soldi per il carburante sono fatti di catrame. La tappa all’autogrill: quel caffè dal sapore tremendo, ma che lì è il più buono del mondo. Che poi, ormai, bevi solo quelli. La caffettiera che da piccolo borbottava. Acqua frizzante. Una pellicola che scorre, brevi strofe da scrivere.

Il segnale lampeggiante. Rallentare c’è un hazard. Quando andavi impettito a scuola guida. La prima macchina che non c’è più. Il clang sotto la coppa che ti lascia perplesso. Un umore dimesso.

Din don, a cento metri c’è un autovelox. Questa incredibile cosa che è il navigatore: sia benedetto il navigatore. Fare a gara con le nuvole. Giocare a nascondino con il sole. Dire dai, che al mare c’è il sole. E la tua giornata prende improvvisamente colore.

Tutti titoli, tutti aneddoti, tutti enigmi.

Figli dei chilometri sono sintomi buffi, che vorresti guarire, o forse no. Un pò di impaccio e dolori articolari vari. Le caviglie che scricchiolano. Un cerchio alla testa costante. Soglia dell’attenzione sempre up. Il girovita da tenere sotto controllo.

Che c’è un sorpasso, o una curva da fare. Una sterzata brusca che salva la vita. E Poi.  La sindrome dei lavori per strada. Una sorta di ansia anticipatoria strisciante. Guidi tranquillo e ti dici. Ora incontro i lavori, ora ci sono i lavori, stai a vedere che becco i lavori.

Zacchete: eccoti i lavori. No. I lavori no.

Stare più eretti, o stare un pò curvi. Smarcarsi improvvisamente, sentirsi veloce, usare il freno, a volte a mano. Fare a gara con il treno, ma tanto lui va come un fuso. Individuare la piazzola. Parlare dialetti diversi, mischiare il linguaggio nelle culture che incontri: farsi cullare dalla nenia di un detto o di quella calata.


Viaggiare crea una dipendenza strana, un’acre sensazione di libertà. Stare immerso nelle mappe, alla ricerca di un territorio. Tanta fatica, ma poi pensi: sgranchita la schiena, tra i chilometri, nonostante tutto, mi sento un nomade felice.

E vai.

P.s.

Ma no. I lavori per strada, per piacere no!! 🙂

Il lungo respiro di un cane che poi si addormenta

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Un cane è un orologio che separa il bene dal male, la natura dalla cultura, il senso dalle cose. Un cane che poi si addormenta è una poesia.

Ogni notte, Lola mi aspetta sulla coperta. Il suo rintocco biologico non ammette sgarri; e mi segue perplessa, se per caso qualcosa va storto e dopo essersi riempita la pancia, trotterella da una stanza all’altra, oppure sale in macchina o assiste ai bagordi di una cena tra amici, con lo sguardo piccato che dice: quanto mi costa averti come padrone.

Arriva prima o poi, comunque, la consapevolezza reciproca che è arrivato il momento. Ecco che Lola scende diligentemente dal letto, che occupa in mia assenza. Un cane sul letto di un umano combina due istinti: la supervisione e il possesso. La difesa del branco e l’oscuro bisogno farlo.

Un pò contrariata, scende, guardandomi in tralice, che non vuol dire in cagnesco. Si arrotola e si spinge. Soddisfatto lo schema “è ora di dormire”, sgrufola e si arresta. Fa qualche girotondo impazzito. Mi punta con gli occhi socchiusi, quasi a sincerarsi che ancora ci sono. C’è qualcosa che non le torna, come se addormentarsi le fosse desiderato ed ostile.

Non posso darle torto. Addormentarsi è un rituale, a volte una missione. A volte riesce bene, altre volte riesce male. Ci sarebbe da scrivere un piccolo racconto su ogni notte. Meglio. Ci sarebbe da scrivere un piccolo racconto su come si scivola dentro ad ogni notte.

Sicuro lo si fa da soli, anche se in presenza di qualcuno: questo Lola lo sa. Io la chiamo, che vorrei abbracciarla, ma non è il momento, magari domani: ognuno si lecchi le proprie ferite e pensi a toilettare se stesso.

Ha un nido caldo, al pari del mio. E uno sul pavimento, quasi a ricordarsi che il suo destino deve pur essere più scomodo di quello del padrone. Calcola e misura, occupando i due luoghi con ritmo regolare, che lo potresti contare.

Cuccia terra terra cuccia cuccia terra terra cuccia.

Facciamo tam tam. Un posto freddo e lastricato, l’altro regressivo ed avvolgente. Proprio come i pensieri di notte.  Abitiamo paessaggi diversi anche in così poco spazio.

Io spengo la luce ma non i pensieri, che scorrono come watt, o come hertz, o come qualcosa che ha a che fare con l’energia  della luce che ho spento. Lola si sdraia. Si accomoda, si aggiusta sul fianco. Lo senti, questo tonfo felpato e pesante: come  una coperta battuta di pomeriggio in campagna, o un cestino di mirtilli che si appoggia sul prato, o un pacco di figurine che da bambino ti piomba dal cielo.

Ma non è ancora tutto, che c’è una cadenza irregolare dei suoi respiri che fa quasi ansia. Sono veloci, sanno di rincorsa di un cacciatore in mezzo al bosco. Di una preda che sta per essere stanata. Del terrore di essere catturata. Cerco di stare al loro passo.

Entro nella natura. Sfrecciano archetipi: cane padrone tribù battute di caccia. Preda predatore gabbia mancanza di cibo. Tagliola  bastone grotta abbandono paura carne sangue. Stantuffi sonori nel vuoto della notte, come accette che sagomano i miei pensieri.

Lola dormi, che è arrivato il momento.

Poi arriva il respiro finale, accompagnato dall’impasto inconscio delle fauci di un cane, che solo chi li ama riconosce e si aspetta.

E’ un lungo, profondo respiro, come la notte e la pace che genera. Un treno che viaggia di notte verso un paese bello e sperduto. Pausa dopo il lavoro, prima della stagione estiva. Una cena saporita e leggera. Sapere che si scriverà un romanzo di sera.

Sogni tesi ma belli. Ombrelli che si aprono e   passeggi sotto la pioggia. Essere felici della presenza di qualcuno nell’aria.

Anch’io mi addormento, che i cacciatori sono spariti, ed è possibile trovare ombra per i miei pensieri.